Isole e desideri che si avverano

Ho un vizio. Se in un libro che mi è piaciuto particolarmente vengono citati altri libri, io devo averli. Credo che sia un processo comune a molti lettori, si tende a trasportare il gusto della lettura in corso ai titoli che in quella lettura vengono menzionati. Una sorta di trasporto affettivo che si spera venga poi ripagato.

In questo particolare caso, la colpa va data a L’arte di collezionare mosche, di Fredrik Sjöberg, che cita L’uomo che amava le isole di D. H. Lawrence. Un titolo che ho trovato curioso e la cui storia mi ha affascinato.
Ho faticato un po’ per riuscire a leggerlo perché in un primo momento non era disponibile, poi è stato ripubblicato in un’antologia che io, pigramente, non ho recuperato e ora, finalmente, viene riproposto in solitaria, da Lindau.

È stata una lettura inaspettata.

Conoscevo a grandi linee la storia, ma quella che mi sono ritrovato davanti si è rivelata più una sorta di fiaba, con tutti i pregi e i limiti del caso, che un racconto vero e proprio. Una storiella veloce, divisa in tre scene, che veicola un messaggio senza nascondercelo, raccontandoci di un uomo che cerca di ‘costruirsi’ un’isola ideale, ma nessuna sembra davvero soddisfarlo (o assecondarlo) salvo la terza, dove si troverà in completa solitudine e dove tutto capitolerà.

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Sembra che Lawrence fosse affascinato dalle isole.
Ha vissuto, per esempio, in Sicilia per circa un anno, e ha visitato la Sardegna e lo Sri Lanka. Molte altre isole appaiono poi nella sua narrativa, isole geografiche ovviamente, ma anche luoghi di isolamento, e spesso come una sorta di luogo dove raggiungere, e magari vivere, un qualche assoluto che inevitabilmente si concluderà malamente.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, Lawrence penserà addirittura di fondare una sorta di isola, Rananim, un’utopia, un’isola benedetta, una comunità per pochi, proprio come i luoghi de L’uomo che amava le isole. L’autore vedeva infatti la fuga come unica salvezza possibile da quell’Europa devastata dagli scontri bellici, e il fallimento di questo suo progetto sembra aver molto ispirato il racconto e infatti, in una sua lettera del 7 novembre 1916 indirizzata all’amico Samuel Koteliansky, già si intravede quello che sarà poi il finale del racconto: “my Rananim, my Florida idea, was the true one. Only the people were wrong. But to go to Rananim, without the people is right, for me, and ultimately, I hope for you.”

In qualche modo L’uomo che amava le isole è proprio la conclusione di questo progetto, una sorta di manifesto, di epitaffio, che sancisce la morte di Rananim e del progetto utopico.
Lawrence concepisce infatti questo ‘luogo speciale’ sempre lontano dalla civiltà, in luoghi selvaggi, dove l’uomo deve tornare in qualche modo primitivo. Solo che, costantemente, l’uomo fallisce. L’utopia fallisce. È il suo destino.

È un fallimento graduale e non previsto dal protagonista, comunque, che comincia la sua avventura acquistando un’isola che include anche degli isolani, scelti per servire al padrone, quindi tuttofare, contadini, governante, ecc. Solo che la sua idea di isolamento è qui alterata dalle ‘troppe’ persone e dal fato avverso, dalla natura che si impone con prepotenza e dalle risorse economiche che scarseggiano.
Quindi si passa a una seconda isola.

La seconda isola è più piccola e gli abitanti si contano sulle dita di una mano. Ma anche qui non tutto sembra funzionare come il protagonista vorrebbe e si passa a una terza proprietà, un isolotto più lontano e disperso, un punto e basta, brullo e piatto.

Ogni isola è ridotta rispetto alla precedente. Ridotta non solo in termini di dimensioni, ma anche di materiale che ‘contiene’, sia esso umano o naturale. Ogni isola è più scarna, più primitiva, meno ricca, così come ad ogni isola corrisponde un protagonista che tenta di allontanarsi sempre più dal resto dell’umanità.

Alla fine l’isola scomparirà del tutto, sotto uno strato di neve. Anche l’idea, quindi, non esiste più. Non esiste più niente, solo il bianco infinito dove terra e mare si confondono in un’unica superficie inospitale e apparentemente infinita.
L’idea iniziale e la realtà, insomma, non coincidono. Più il protagonista pensa di avvicinarsi alla vera essenza della sua idea di isola, e più l’isola stessa scompare. Anche la parola stessa, isola, appare moltissime volte nel testo, ma le sue apparizioni diminuiscono mano a mano che ci si sposta verso la terza proprietà. Si arriva, in pratica, a decostruire l’idea stessa di isola, sebbene all’inizio del testo ci si chieda cosa sia un’isola.

A fine lettura viene spontaneo pensare a quel modo di dire che fa: attento a quello che desideri perché potrebbe avverarsi. È un po’ quello che succede al protagonista del racconto. Lui vuole isolarsi dal mondo e finisce col rimanere completamente solo e quasi estraneo alla stessa umanità, abbandonato anche dal suo corpo e oppresso dalla natura.

Ma non si tratta solo di decostruire un sogno, un progetto, ma anche il modo in cui sogniamo, secondo me.
Perché il problema è che a volte ci ostiniamo troppo.
Abbiamo un’idea in testa, un’idealizzazione di qualcosa, e lottiamo così alacremente per concretizzarla, che alla fine nemmeno ci accorgiamo di non volerlo fare più. Siamo così immersi nella marcia verso la meta finale, che non ci accorgiamo delle cose belle che incontriamo lungo la via. Il proprietario delle isole, per esempio, potrebbe decidere di fermarsi alla seconda isola, più ‘stabile’ della prima, dove potrebbe perfino condurre un tipo di esistenza piacevole, ma lui ha questo tarlo in testa, questa paura, quasi, di abbandonare il suo progetto e di attaccarsi ad altro, che si ostina a continuare la sua ricerca.

Siamo vittime di noi stessi? Dei nostri sogni? Dei nostri modi di pensare?
Stiamo cercando isole in cui moriremo o stiamo cercando la felicità? Perché forse il problema è tutto qui: spostiamo il nostro sguardo dallo scopo della nostra ricerca (fare qualcosa che ci renda contenti) alla ricerca stessa, non capendo che una ricerca può essere interrotta.
E forse potrebbe volerci una ‘fiaba’ come questa per comprenderlo.

***

Bibliografia:

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