Uccidere con filosofia

Billy è un orfano. I suoi genitori hippie sono morti quando era piccolo ed è stato allevato dagli zii, che lo hanno cresciuto a pane e filosofia, per poi farlo entrare nell’azienda di famiglia, un’azienda un po’ particolare i cui ‘impiegati’ sono assassini di assassini.

Tra flashback e contemporaneità, il libro ci regala una sorta di racconto on the road che attraversa anni e crimini e deserti per giungere a una Las Vegas solo apparentemente luccicante e a un finale… al sangue.

billy-d512

Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo romanzo. Sembra voler raccontare una storia bizzarra, con un protagonista atipico e un autore misterioso, ma poi mi sono lasciato trasportare dalle pagine, dalle parole, dai pensieri e ho scoperto che il libro, in verità, racconta il contrario di quello che uno sarebbe portato a pensare.

Billy dovrebbe essere il pazzo che si aggira in un mondo normale. È lui che fa un mestiere poco ortodosso, il killer. È lui che ha una vita particolare. È lui che ascolta le storie di ogni sua vittima, prima di premere il grilletto. Gli altri, invece, conducono le loro normali vie tranquille.

E invece no. Non è così.
Billy è la persona più ‘normale’ di tutte (anche il nome, in fondo, fa pensare alla normalità). È un uomo apparentemente distinto, intelligente, piuttosto colto, che sa esprimersi bene, che sa capire quello che gli viene detto. È uno a cui piace la filosofia, che si fa domande, che ragiona, che non si preclude nessuna risposta, ma semplicemente vuole pensare prima di proferire parola.

Tutti gli altri, invece, sono bizzarri. È bizzarro il venditore di auto, lo sono i giocatori di bingo, lo è l’amico e collega Whiplash e pure il suo ‘autista’. È bizzarro l’imitatore di Elvis.
In somma, il killer, il ‘cattivo’, quello che dovrebbe fare le cose strane è la persona (senza contare lo zio, ma è più una figura esterna che un protagonista) più sensata di tutte, quella a cui uno potrebbe (dovrebbe?) aspirare.

Ecco allora che Billy diventa uno specchio magico, una lente che ingrandisce quello che ci circonda. Forse lo estremizza un po’, ma allo stesso tempo sembra dire: non giudicare mai. Pensa. Analizza. Non essere sicuro delle tue idee, sii aperto al cambiamento di prospettiva. Perché tutti quelli che sono mentalmente immobili, qui, sono esseri grotteschi. Chiunque abbia una precisa idea e non sia disposto a parlarne, a pensarci su, risulta una caricatura. Ogni uomo che crede di sapere dove si andrà, cosa c’è da fare, come bisogna pensare, qui diventa il mostro.

Magari mi sbaglio. Magari sono stato abbagliato dalla periferia povera e lurida di Vegas. Ma penso che questo libro sia un grande inno al pensiero, alla mente al lavoro, e c’è qualcosa di più inneggiante al libero pensiero di un finale che ti farà scervellare in eterno?

Billy
di Einzlkind
Traduzione di Franco Filice
257 pagine, 16,50 €, Nottetempo

Agnelli

Lamb.
Agnello.
E quindi anche ingenuo. Credulone.

Ma anche partorire. In qualche modo.

imageitem

Ho esordito così, per parlare di questo romanzo, perché l’ambiguità è la pietra fondante di tutta la storia, il velo attraverso il quale noi possiamo ammirare tutta la scena, avendo sempre il dubbio circa il cosa stia succedendo davvero.

Il protagonista è David Lamb, dal cui cognome il libro prende appunto il titolo. Questo signore sta avendo una sorta di crisi esistenziale: è morto suo padre, il suo matrimonio è finito e una nuova relazione sul posto di lavoro lo ha portato a una vacanza obbligata.
Poi però incontra una ragazzina, Tommie, di undici anni. Succede per caso, per via di una sorta di scherzo che Tommie e le sue perfide amiche stavano facendo, ma Lamb rimane affascinato, per qualche ragione, da questa giovanissima donna, da questa creatura ancora da sbocciare.
Ne nasce un’amicizia ovviamente bizzarra, che culmina con la fuga insieme.

Ambiguità, dicevo.
L’ambiguità sta nascosta già nel titolo, perché si è portati a pensare che il riferimento sia, appunto, a David. Ma credo che stia a indicare anche Tommie, che è un agnellino caduto nelle grinfie di un… di un cosa? Perché questo è un altro punto interessante: David è il lupo della situazione? Oppure è solo una persona caduta nella parte difficile della vita? Un uomo che ha perso la direzione?
E che rapporto nasce tra i due? Amicizia? Padre-figlia? Amore? Relazione sessuale? Morbosità? Ossessione?

È un romanzo estremamente affascinante, questo di Bonnie Nadzam.
Ti mostra tutto quello che succede, ogni cosa, eppure tu non capisci mai perfettamente. Hai sempre qualche dubbio. Ci sono situazioni estremamente ambigue, altre incredibilmente toccanti… ma cosa prevale? Cosa sta succedendo veramente? Cosa pensano davvero i due protagonisti?

La Nadzam ha creato un qualcosa di davvero interessante. Non gioca mai sporco, anzi, mette tutte le informazioni alla luce del sole, eppure ti sembra di vivere perennemente nell’ombra e non capisci se quello che hai intuito era un gioco di luci e un’azione vera.

E per ovvie ragioni ti viene poi da pensare: quanto di quello che io vedo nella realtà è reale? Quanto solo un’ombra che gioca con la mia mente?
Perché, diciamocelo, giudicare a volte è facilissimo. Stabilire cosa sia davvero successo, non appena un telegiornale da una mezza notizia, ci risulta così immediato che dovremmo spaventarci di questa rapidità di scelta, di questa agilità nel dare per scontate mille cose. Eppure continuiamo a farlo. Tutti noi.
Qui, invece, tra queste pagine, capisci che giudicare è complicatissimo. Stabilire cosa stia accadendo e se ci sono davvero delle colpe è arduo e forse non è nemmeno un tuo diritto farlo.

Intendiamoci, il tema è davvero complicato e molto scabroso. Si capisce che il rapporto tra Lamb e Tommie è qualcosa che non dovrebbe esserci, che non dovrebbe realizzarsi. Eppure… eppure è complicato.
Non è che David sta semplicemente cercando una rinascita di qualche tipo? Non è che Tommie rappresenta quella figura che può rimetterlo in pace col mondo? Un qualcuno a cui donare qualcosa, qualcosa di reale, tangibile? E non è che Tommie avesse bisogno di quella vacanza per capire la sua vita quotidiana?

Non saprei. Ma se ve la sentite di affrontare un viaggio verso le Montagne Rocciose fatto di molte ombre e poche luci, di ambiguità e situazioni che corrono lungo un limite che non sai mai dire se è stato superato o no… allora dovete leggere Lamb.

Lamb
di Bonnie Nadzam
Traduzione di Leonardo Taiuti
240 pagine, 15,00 €, Edizioni Clichy

Fiabe così belle che dovete leggerle per forza

C’è qualcosa, nelle fiabe, che le rende il genere letterario perfetto.
Che poi… genere… non sono sicuro sia la parola giusta.
Di certo, però, con una fiaba si può raccontare di tutto, dai temi più abusati, come per esempio l’amore, a quelli più scabrosi (violenza, diversità, ecc.). La fiaba ha un grande pubblico, perché da bambini ci vengono lette e da grandi, forse nel tentativo di ritornare all’infanzia, in qualche modo le ricerchiamo e scopriamo che hanno ancora qualcosa da dirci. Sebbene abbia elementi che potremmo considerare fantastici, non ha le limitazioni del genere fantasy, che notoriamente viene snobbato dai lettori cosiddetti colti.
Le fiabe sono, in somma, un genere che può permettersi molte cose e che può arrivare a molte persone. Anche a chi legge pochissimo, perché contano giusto qualche pagina e quindi non hanno il tempo di farti calare la palpebra.

Pensavo a tutte queste cose una volta finito Fiabe così belle che non immaginerete mai, di Ivano Porpora.

17029095_10155004705674286_45452784_n

Il bello del libro di Porpora è che questa volta le fiabe classiche sono state lasciate fuori (a differenza del trend hollywoodiano degli ultimi anni) per lasciare spazio a fiabe esclusivamente originali. Rimangono ben presenti elementi che indubbiamente rimandano ai classici, ma allo stesso tempo ci sono talmente tante cose nuove, contemporanee (dai riferimenti, ai modi di dire, alla grande e spietata ironia) che il risultato è qualcosa di inedito, supportato da una scrittura fresca, rapida… effervescente!

Sono storie divertentissime, quelle che si leggono qui.

Sono storie profondissime, quelle che si leggono qui.

Sono storie che commuovono e fanno arrabbiare e poi rifanno ridere e rifanno piangere.

Sono storie che abbracciano così tanti temi che non si potrebbero elencare tutti, non qui, ma che potremmo riassumere con un ‘ritorno al genuino’. Se c’è infatti un tratto comune a tutte le fiabe del volume, questo mi pare possa essere identificato in una cosa che le fiabe sanno fare benissimo da sempre: mostrare l’importanza di ciò che dovrebbe esserci ovvio, ma che ovvio sembra non esserlo affatto.

Ecco allora che, mentre ci perdiamo tra cuori di pezza e abbracci lunghissimi e terre lontanissime e guerre mimate e messaggeri dalla forte iniziativa poetica e farmacisti con la fissa per il viagra, la lente di Ivano e delle sue fiabe ci mostra quello che non dovremmo dimenticare mai: dalla bellezza dei colori che ci circondano, all’importanza di un abbraccio, al divertimento di un gioco.

Perché le cose semplici vanno sempre ricordate, se non vogliamo dimenticarle.

Questo mio commento ha quindi una morale triplice, come richiede l’occasione.
Innanzitutto che questo libro bisogna leggerlo, una fiaba ogni sera, obbligatoriamente col pigiama addosso. Perché è troppo bello e quindi il dress-code, come mi viene insegnato, è essenziale.
Poi che Liberaria fa sempre libri ottimi.
E infine che, prima o poi, a ogni blogger vien voglia di imitare lo stile di un libro troppo bello da spiegare. (Vero Elisa?)

Fiabe così belle che non immaginerete mai
di Ivano Porpora
165 pagine, 15,00 €, LiberAria Editrice

Io, il Pupo e… il porcellino

A volte, leggendo un albo illustrato, mi chiedo se questo tipo di letteratura sia davvero indirizzato ai bambini, o se piuttosto non sia stato scritto per noi adulti che con i bambini c’abbiamo a che fare.
Poi ci ragiono e mi convinco che è questo che deve fare la buona letteratura per l’infanzia: essere adatta a tutte le età, saper regalare qualcosa a tutti quelli che  la leggeranno.

È così per Rompi il porcellino.

9788807922817_quarta

La storia è molto semplice e adatta a bambini anche piccoli come il mio, che di anni ne ha tre. Racconta di un ragazzino che vuole a tutti i costi comprare un gioco, ma il padre vuole insegnarli il valore dei soldi e così gli prende un salvadanaio. Quando arriverà il momento di romperlo, però, il figlio non vorrà saperne di separarsi dal nuovo amico.

È una storia molto interessante che mostra come troppo spesso gli adulti diano per scontate certe idee e procedano dritti per la loro strada, senza però considerare il bambino che si ha davanti. L’intento del padre è giusto, condivisibile, ma diventa un problema quando smette di ascoltare il figlio.
Non è chiaro se sia stato compreso o no il valore dei soldi, di certo per lui quel porcellino è diventato qualcosa di importante e di fronte a certe cose, alcune idee dovrebbero piegarsi.

Allo stesso tempo è una storia delicatissima che ha al suo centro quelle amicizie magiche e misteriose che nascono tra i bambini e le cose. Quei momenti in cui un ragazzino scopre che, a volte, per salvare qualcuno bisogna rinunciarvi. Quei momenti in cui si capisce che lacrime e arrabbiature non servono a niente, e che per sconfiggere un’idea non condivisa bisogna agire, senza provare risentimento ma solo amore.

È una storia semplice, dicevo. Lineare. Corredata da illustrazioni stupende e misteriose come l’amicizia tra il bambino e il porcellino salvadanaio. Un oggetto bellissimo anche da collezionare.

Ma è nelle storie semplici che si nascondono i messaggi più forti, e il messaggio, qui, è che a volte non si può guardare solo con gli occhi, a volte bisogna guardare con il cuore.

 

Rompi il porcellino
di Etgar Keret
Illustrazioni di David Polonsky
Traduzione di Gil Mor
32 pagine, 15,00 €, Feltrinelli

L’arte di non rispondere

La resistenza del maschio inizia con un incidente.
Un’auto esce di strada e ci sono due testimoni: l’Uomo, ovvero il protagonista del romanzo, e una prostituta.
Quando l’Uomo ritorna a casa, la moglie gli fa presente di essere rientrato molto tardi. Lui allora racconta dell’incidente, lei non ci crede, lui estrae il verbale della polizia per dimostrare di aver detto la verità, che non si tratta di una scusa, ma così facendo lei vede il nome della prostituta e lo accusa (anche) di andare a puttane. Qui succede un breve battibecco, poi il silenzio.

Una volta letta questa scena ho chiesto a mia moglie cos’avrebbe pensato lei. Cioè, se io fossi tornato a casa in ritardo, con un verbale di un incidente in cui i due unici testimoni siamo io e una prostituta, che idea si sarebbe fatta? Perché, diciamocelo… pensar male è davvero facile.
Mia moglie mi ha risposto, con nonchalance: “Basterebbe che tu rispondessi alle mie domande.”

È vero. Potrebbe avermi risposto così giusto per fare la carina e non dirmi che avrebbe avuto delle difficoltà a credermi. Ma è anche vero che la sua reazione mi ha colto impreparato. Non avevo pensato a Questa risposta, perché la scena mi ha portato a concentrarmi su altro. Sebbene ci troviamo infatti ancora all’inizio della vicenda, risulta subito chiaro che questa coppia ha qualcosa che non va, che non sta funzionando, e io ero rimasto troppo invischiato nella lotta tra i due, fatta di accuse e silenzi, per rendermi conto che probabilmente mia moglie ha ragione: basterebbe, una volta tanto, rispondere.

la-resistenza-del-maschio

La resistenza del maschio, sebbene si concentri sulla vita di quest’uomo, ci mostra in verità diversi tipi di coppie, o non-coppie. Alcune solo di sfuggita, altre più approfonditamente. Tutte con dei problemi.
Non esiste una coppia felice, o almeno contenta. Non esiste una coppia, a dire il vero.
A tratti sembra che sia un problema dell’epoca moderna, a tratti sembra che sia così e basta.

C’è la relazione principale dell’Uomo con la Donna, con lei che vuole un figlio a tutti i costi e un lui che no, non ora, pensiamoci, vedremo, ecc. C’è poi il Maschio che intreccia un rapporto strano con la donna dell’incidente, ovvero una sorta di conversazione tramite telefono che trova un limitatissimo riscontro nella vita reale. E poi le mille relazioni naufragate, più quella con l’uomo del caffè, di una terza donna che incontreremo in una sala d’aspetto, dove si capirà che tutto può legarsi, annodarsi assieme. E poi c’è la figura del ginecologo, che meriterebbe un discorso a parte.
Tutte storie che non portano a nulla, in verità. Tutte storie che non riescono a trovare una consistenza da poter definire con aggettivi positivi.

E allora ecco che mi ritorna la risposta datami da mia moglie: “Basterebbe che tu rispondessi alle mie domande.”
Mi chiedo se il problema di queste coppie in disfacimento che si alternano nel libro non sia altro che la mancanza di risposte.
Perché se ci fossero risposte chiare alla domanda “Perché vuoi un figlio?” o a “Perché non lo vuoi?” non sarebbe tutto diverso? Se qualcuno riuscisse davvero a rispondere a una domanda fatta tramite sms dove si chiede “Perché non vuoi che ci vediamo?” non finirebbe tutto in un modo differente?

La resistenza del maschio sembra dunque una resistenza a dare risposte chiare.
E, forse, la resistenza della femmina sta nel non voler porre le domande giuste.
Entrambi si concentrano su se stessi.

Manca la comunicazione. Manca la chiacchiera che non sia semplicemente un resoconto della giornata di lavoro, o l’erudita spiegazione di un quadro, o la continua richiesta di qualcosa. Manca la comunicazione che non sia solo rabbia, o solo caffè, o solo silenzi.

Poi, certo, ci sono anche altri ‘problemi’.
C’è l’Uomo che misura tutto perché vuole conoscere lo spazio in cui si trova, vuole capirlo per potersi regolare di conseguenza. Ma nel rapporto con gli altri le misure non valgono, le misure sono relative. Le misure sbagliano.
C’è la Donna che conosce l’infanzia problematica di suo marito, ma si ostina a voler un bambino a tutti i costi, e non le interessa altro. (E mi chiedo se l’arrivo di un vero bambino le farebbe poi bene).
C’è Effe che è stata vittima di un incidente dalle cause dubbie.
C’è un medico che è rimasto un adolescente con gli ormoni in subbuglio.

Ma non abbiamo tutti noi i nostri problemi? Non siamo noi tutti vittime dei nostri passati, delle nostre idee, dei nostri sogni e progetti?
Mi richiedo, allora: se riuscissimo a parlarci, a farci delle domande e a rispondere, non riusciremmo, in qualche modo, a mitigare questi nostri problemi? A condividerli, a dividerli, e quindi a sopportarli meglio? E così facendo, non potremmo alla fine concentrarci su altro? Su un progetto nuovo, diverso?

Non basterebbe, insomma, almeno una volta, rispondere con sincerità a una domanda, per vivere meglio?

La resistenza del maschio
di Elisabetta Bucciarelli
240 pagine, 11,05 €, NN Editore

La paura del bianco

Forse l’ho già raccontato altre volte. Probabilmente sì, perché sono uno che si ripete e si scorda di essersi già ripetuto all’infinito, uno che tende a dire e ridire le stesse quattro cose ogni tot. di tempo.

Dicevo… forse l’ho già raccontato altre volte che Moby Dick è un peso che mi sta qui, ma qui non ad altezza petto, ma ad altezza gola, incastrato appena sotto il pomo d’Adamo.
Questo perché quando quella famosa volta feci la scommessa con mia madre, uno dei tre libri che mi ero ripromesso di leggere (e quello che poi non finii) era proprio il capolavoro di Melville. Avevo dodici anni e l’edizione Mille Lire e troppe pagine e mi arenai.
Lo ammetto, fu una scelta piuttosto sciocca, la mia, ma quel libro ancora oggi, se lo riprendo in mano, anche in edizioni esteticamente più fini, non riesco a leggerlo, non riesco ad andare oltre le prime cento pagine.

Ora, però, credo di aver trovato il rimedio.

timthumb

Ho letto Moby Dick e altri racconti brevi e ho riso come un matto.

Non è propriamente una raccolta di racconti, ma più un insieme di pensieri, riflessioni, episodi, tutti accomunati da un continuo e divertente e intelligente riferimento ai classici della letteratura e del cinema, più qualche concessione ad alcuni titoli che mi auguro non diventino classici (leggasi Cinquanta sfumature di grigio).

Al di là della grande ammirazione che non si può fare a meno di provare nei confronti dell’autore, che si rivela essere un grande conoscitore di queste opere, c’è da dire che questo libro può essere usato in molti modi. Ve ne indico qualcuno:

  • Antidoto contro la tristezza: mi sembra chiaro, no? L’ho detto all’inizio che ho riso come un matto. Perché Alessandro Sesto prende questi classici e li trasporta nella quotidianità contemporanea, e ne prende dei frammenti, dei particolari, o dei momenti interi e li ribalta, li mostra sotto luci diverse, dai colori più sgargianti, e tu non puoi fare a meno di ridere. Ridere di cose che non ti eri accorto, ridere di cose fin troppo serie, ridere perché quella cosa lì l’avevi pensata pure tu. Ridere perché ridere è bello.
  • Manuale alternativo per lo studio dei classici: l’ho pensato subito. Appena leggerò o rileggerò uno dei classici citati (leggasi Moby Dick, tentativo numero 250) dovrò tenermi vicino quest’opera. E mentre andrò a caccia di quella cavolo di balena bianca, o mentre starò leggendo La fiera della vanità, o i Fratelli Karamazov, mi metterò a spulciare pure il libro di Sesto, per capire cose che da solo non capirei. Cose non necessariamente eclatanti, ma che possono mettere tutto su un piano diverso.
  • Far ridere la moglie mentre il pupo ti dorme accanto: vi consiglio però di farlo col silenziatore, che a ridere troppo forte il pupo appena addormentato si sveglia.
  • Scoprire una nuova realtà editoriale: è infatti il primo titolo targato Gorilla Sapiens che leggo e mi sono reso conto che a pubblicare un libro così possono essere solo persone belle e brave e che hanno un’idea chiara in testa. Quindi ho già lì pronto un altro titolo gorilloso che ci lascia intuire la genialità e la serietà di queste persone: Un tebbirile intanchesimo.

Sì, insomma… questo libro è davvero bello. Perché riesce, contemporaneamente, a prendere sul serio e a dissacrare tutto quello che viene citato, più la vita che viviamo. Perché in fondo si può, e si deve, riuscire a scherzare su tutto, tenendo però ben in mente che certe cose sono più vere di altre, che certi titoli sono più titoli di altri, che tutte le vite sono storie e che in ogni libro ci siamo dentro pure noi.

Moby Dick e altri racconti brevi
di Alessandro Sesto
164 pagine, 12,90 €, Gorilla Sapiens Edizioni

La poesia è morta?

Quando John Lehmann chiederà a Virginia Woolf se secondo lei la poesia fosse morta, la grande autrice inglese non potrà trattenersi dal rispondere. E questo voler rispondere farà scattare un’idea che si tramuterà in una sorta di pamphlet intitolato Lettera a un giovane poeta.

In questi giorni l’operetta è tornata in libreria grazie agli amici di Lindau che l’hanno ribattezzata Lettere a un giovane poeta, avendo infatti aggiunto un’ulteriore lettera di Virginia a Lehmann, dove la scrittrice tenta di inquadrare meglio l’opera principale.

Chi di voi segue il progetto @aboutwoolf, su Twitter, avrà già avuto modo di conoscere qualcosa a proposito di questo libercolo, ma mi piaceva l’idea di ritornarci per dire altre due parole.

lettere-a-un-giovane-poeta_large

La lettura delle Lettere a un giovane poeta ha coinciso con il desiderio di mio figlio di tre anni di sentirmi leggere ad alta voce libri che non fossero i suoi. Così, ben comodi sul lettone, io sono partito a declamare e lui si è messo ad ascoltare.
È stato un esperimento interessante perché ho notato una cosa: il pupo era silenzioso, attento, ammaliato. Non perché sia un genio o perché riuscisse davvero a capire i significati di quei discorsi (sebbene alcune cose l’abbiano fatto ridere), ma perché Virginia ha un ritmo meraviglioso. Leggere queste lettere ad alta voce è uno spettacolo di tempi, suoni, pause, lunghezze.
Il ritmo! Non può essere considerata solo una lettera.
Non può essere considerata saggistica.
È poesia.

Ma al di là di questo, cosa può dirci quella che, in fondo, è un’opera minore, secondaria della Woolf.

Beh, per prima cosa ci dimostra, ancora una volta, che Virginia era molto divertente, e infatti si ride anche, seguendo i suoi consigli.

Ma soprattutto ci regala una risposta che in letteratura, ma non solo, potremmo usare spesso: niente muore davvero, se non lo lasci morire.
“La poesia è morta?” mi ricorda infatti il più contemporaneo “Il romanzo è morto?”, e leggendo queste poche pagine si capisce che la poesia, il romanzo, l’arte… queste cose non possono morire, al massimo possono essere fatte male, al massimo si può rimanere impigliati nell’io sbagliato che ti porta a seguire strade dissestate che non conducono da nessuna parte, se non al disastro.

Ho idea che il proprio io non abbia limiti, l’io da il via alla danza, l’io obbedisce al ritmo; è certo più facile scrivere una poesia su se stessi che non su chiunque altro. Ma cosa intendiamo per quell'”io”? Non l’io che Wordsworth, Keats e Shelley hanno descritto – non l’io che ama una donna oppure odia un tiranno, o medita sui misteri del creato. No, l’io di cui ti stai occupando è estraneo a tutto ciò. È l’io che la sera ti trova seduto nella tua stanza, solo soletto con le tende tirate.

E poi ci ricorda che scrivere non è pubblicare. E a me vien da pensare a quanto questo sia attuale e necessario e giusto e fin troppo dimenticato.

Ma se farai tanto di pubblicare, la tua libertà verrà tarpata: ti chiederai cosa pensa la gente; scriverai per gli altri quando dovresti scrivere per te stesso. E che senso può avere frenare quel flusso di spontaneità anche sciocca che sarà tuo appannaggio – sublime appannaggio – solo per pochi anni ancora, pur di pubblicare seriosi volumetti di versi sperimentali? Per soldi? […] Per essere recensito?

Lettere a un giovane poeta è insomma una lettura breve e vivace che da pochi ma preziosi consigli. Ai poeti, ma non solo.

Ma ci mostra anche il pensiero di Virginia stessa, che non si limita a parlare di poesia, ma anzi, facendo finta di dare consigli ci mostra il suo mondo e le sue idee sulla letteratura e la persona e chi le sta attorno e chi l’ha preceduta.
È un piccolo spiraglio, questo, uno spioncino per intravedere quello che la Woolf è. Ovviamente, poi, per comprenderla davvero si dovrà almeno tentare di aprire la porta.

Leggere, lo sai, è un po’ come aprire una porta e lasciarsi invadere da orde di barbari…

 

Lettere a un giovane poeta
di Virginia Woolf
Traduzione di Camilla Salvago Raggi
52 pagine, 10,00 €, Edizioni Lindau