Uccidere con filosofia

Billy è un orfano. I suoi genitori hippie sono morti quando era piccolo ed è stato allevato dagli zii, che lo hanno cresciuto a pane e filosofia, per poi farlo entrare nell’azienda di famiglia, un’azienda un po’ particolare i cui ‘impiegati’ sono assassini di assassini.

Tra flashback e contemporaneità, il libro ci regala una sorta di racconto on the road che attraversa anni e crimini e deserti per giungere a una Las Vegas solo apparentemente luccicante e a un finale… al sangue.

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Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo romanzo. Sembra voler raccontare una storia bizzarra, con un protagonista atipico e un autore misterioso, ma poi mi sono lasciato trasportare dalle pagine, dalle parole, dai pensieri e ho scoperto che il libro, in verità, racconta il contrario di quello che uno sarebbe portato a pensare.

Billy dovrebbe essere il pazzo che si aggira in un mondo normale. È lui che fa un mestiere poco ortodosso, il killer. È lui che ha una vita particolare. È lui che ascolta le storie di ogni sua vittima, prima di premere il grilletto. Gli altri, invece, conducono le loro normali vie tranquille.

E invece no. Non è così.
Billy è la persona più ‘normale’ di tutte (anche il nome, in fondo, fa pensare alla normalità). È un uomo apparentemente distinto, intelligente, piuttosto colto, che sa esprimersi bene, che sa capire quello che gli viene detto. È uno a cui piace la filosofia, che si fa domande, che ragiona, che non si preclude nessuna risposta, ma semplicemente vuole pensare prima di proferire parola.

Tutti gli altri, invece, sono bizzarri. È bizzarro il venditore di auto, lo sono i giocatori di bingo, lo è l’amico e collega Whiplash e pure il suo ‘autista’. È bizzarro l’imitatore di Elvis.
In somma, il killer, il ‘cattivo’, quello che dovrebbe fare le cose strane è la persona (senza contare lo zio, ma è più una figura esterna che un protagonista) più sensata di tutte, quella a cui uno potrebbe (dovrebbe?) aspirare.

Ecco allora che Billy diventa uno specchio magico, una lente che ingrandisce quello che ci circonda. Forse lo estremizza un po’, ma allo stesso tempo sembra dire: non giudicare mai. Pensa. Analizza. Non essere sicuro delle tue idee, sii aperto al cambiamento di prospettiva. Perché tutti quelli che sono mentalmente immobili, qui, sono esseri grotteschi. Chiunque abbia una precisa idea e non sia disposto a parlarne, a pensarci su, risulta una caricatura. Ogni uomo che crede di sapere dove si andrà, cosa c’è da fare, come bisogna pensare, qui diventa il mostro.

Magari mi sbaglio. Magari sono stato abbagliato dalla periferia povera e lurida di Vegas. Ma penso che questo libro sia un grande inno al pensiero, alla mente al lavoro, e c’è qualcosa di più inneggiante al libero pensiero di un finale che ti farà scervellare in eterno?

Billy
di Einzlkind
Traduzione di Franco Filice
257 pagine, 16,50 €, Nottetempo

L’arte di non rispondere

La resistenza del maschio inizia con un incidente.
Un’auto esce di strada e ci sono due testimoni: l’Uomo, ovvero il protagonista del romanzo, e una prostituta.
Quando l’Uomo ritorna a casa, la moglie gli fa presente di essere rientrato molto tardi. Lui allora racconta dell’incidente, lei non ci crede, lui estrae il verbale della polizia per dimostrare di aver detto la verità, che non si tratta di una scusa, ma così facendo lei vede il nome della prostituta e lo accusa (anche) di andare a puttane. Qui succede un breve battibecco, poi il silenzio.

Una volta letta questa scena ho chiesto a mia moglie cos’avrebbe pensato lei. Cioè, se io fossi tornato a casa in ritardo, con un verbale di un incidente in cui i due unici testimoni siamo io e una prostituta, che idea si sarebbe fatta? Perché, diciamocelo… pensar male è davvero facile.
Mia moglie mi ha risposto, con nonchalance: “Basterebbe che tu rispondessi alle mie domande.”

È vero. Potrebbe avermi risposto così giusto per fare la carina e non dirmi che avrebbe avuto delle difficoltà a credermi. Ma è anche vero che la sua reazione mi ha colto impreparato. Non avevo pensato a Questa risposta, perché la scena mi ha portato a concentrarmi su altro. Sebbene ci troviamo infatti ancora all’inizio della vicenda, risulta subito chiaro che questa coppia ha qualcosa che non va, che non sta funzionando, e io ero rimasto troppo invischiato nella lotta tra i due, fatta di accuse e silenzi, per rendermi conto che probabilmente mia moglie ha ragione: basterebbe, una volta tanto, rispondere.

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La resistenza del maschio, sebbene si concentri sulla vita di quest’uomo, ci mostra in verità diversi tipi di coppie, o non-coppie. Alcune solo di sfuggita, altre più approfonditamente. Tutte con dei problemi.
Non esiste una coppia felice, o almeno contenta. Non esiste una coppia, a dire il vero.
A tratti sembra che sia un problema dell’epoca moderna, a tratti sembra che sia così e basta.

C’è la relazione principale dell’Uomo con la Donna, con lei che vuole un figlio a tutti i costi e un lui che no, non ora, pensiamoci, vedremo, ecc. C’è poi il Maschio che intreccia un rapporto strano con la donna dell’incidente, ovvero una sorta di conversazione tramite telefono che trova un limitatissimo riscontro nella vita reale. E poi le mille relazioni naufragate, più quella con l’uomo del caffè, di una terza donna che incontreremo in una sala d’aspetto, dove si capirà che tutto può legarsi, annodarsi assieme. E poi c’è la figura del ginecologo, che meriterebbe un discorso a parte.
Tutte storie che non portano a nulla, in verità. Tutte storie che non riescono a trovare una consistenza da poter definire con aggettivi positivi.

E allora ecco che mi ritorna la risposta datami da mia moglie: “Basterebbe che tu rispondessi alle mie domande.”
Mi chiedo se il problema di queste coppie in disfacimento che si alternano nel libro non sia altro che la mancanza di risposte.
Perché se ci fossero risposte chiare alla domanda “Perché vuoi un figlio?” o a “Perché non lo vuoi?” non sarebbe tutto diverso? Se qualcuno riuscisse davvero a rispondere a una domanda fatta tramite sms dove si chiede “Perché non vuoi che ci vediamo?” non finirebbe tutto in un modo differente?

La resistenza del maschio sembra dunque una resistenza a dare risposte chiare.
E, forse, la resistenza della femmina sta nel non voler porre le domande giuste.
Entrambi si concentrano su se stessi.

Manca la comunicazione. Manca la chiacchiera che non sia semplicemente un resoconto della giornata di lavoro, o l’erudita spiegazione di un quadro, o la continua richiesta di qualcosa. Manca la comunicazione che non sia solo rabbia, o solo caffè, o solo silenzi.

Poi, certo, ci sono anche altri ‘problemi’.
C’è l’Uomo che misura tutto perché vuole conoscere lo spazio in cui si trova, vuole capirlo per potersi regolare di conseguenza. Ma nel rapporto con gli altri le misure non valgono, le misure sono relative. Le misure sbagliano.
C’è la Donna che conosce l’infanzia problematica di suo marito, ma si ostina a voler un bambino a tutti i costi, e non le interessa altro. (E mi chiedo se l’arrivo di un vero bambino le farebbe poi bene).
C’è Effe che è stata vittima di un incidente dalle cause dubbie.
C’è un medico che è rimasto un adolescente con gli ormoni in subbuglio.

Ma non abbiamo tutti noi i nostri problemi? Non siamo noi tutti vittime dei nostri passati, delle nostre idee, dei nostri sogni e progetti?
Mi richiedo, allora: se riuscissimo a parlarci, a farci delle domande e a rispondere, non riusciremmo, in qualche modo, a mitigare questi nostri problemi? A condividerli, a dividerli, e quindi a sopportarli meglio? E così facendo, non potremmo alla fine concentrarci su altro? Su un progetto nuovo, diverso?

Non basterebbe, insomma, almeno una volta, rispondere con sincerità a una domanda, per vivere meglio?

La resistenza del maschio
di Elisabetta Bucciarelli
240 pagine, 11,05 €, NN Editore

La paura del bianco

Forse l’ho già raccontato altre volte. Probabilmente sì, perché sono uno che si ripete e si scorda di essersi già ripetuto all’infinito, uno che tende a dire e ridire le stesse quattro cose ogni tot. di tempo.

Dicevo… forse l’ho già raccontato altre volte che Moby Dick è un peso che mi sta qui, ma qui non ad altezza petto, ma ad altezza gola, incastrato appena sotto il pomo d’Adamo.
Questo perché quando quella famosa volta feci la scommessa con mia madre, uno dei tre libri che mi ero ripromesso di leggere (e quello che poi non finii) era proprio il capolavoro di Melville. Avevo dodici anni e l’edizione Mille Lire e troppe pagine e mi arenai.
Lo ammetto, fu una scelta piuttosto sciocca, la mia, ma quel libro ancora oggi, se lo riprendo in mano, anche in edizioni esteticamente più fini, non riesco a leggerlo, non riesco ad andare oltre le prime cento pagine.

Ora, però, credo di aver trovato il rimedio.

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Ho letto Moby Dick e altri racconti brevi e ho riso come un matto.

Non è propriamente una raccolta di racconti, ma più un insieme di pensieri, riflessioni, episodi, tutti accomunati da un continuo e divertente e intelligente riferimento ai classici della letteratura e del cinema, più qualche concessione ad alcuni titoli che mi auguro non diventino classici (leggasi Cinquanta sfumature di grigio).

Al di là della grande ammirazione che non si può fare a meno di provare nei confronti dell’autore, che si rivela essere un grande conoscitore di queste opere, c’è da dire che questo libro può essere usato in molti modi. Ve ne indico qualcuno:

  • Antidoto contro la tristezza: mi sembra chiaro, no? L’ho detto all’inizio che ho riso come un matto. Perché Alessandro Sesto prende questi classici e li trasporta nella quotidianità contemporanea, e ne prende dei frammenti, dei particolari, o dei momenti interi e li ribalta, li mostra sotto luci diverse, dai colori più sgargianti, e tu non puoi fare a meno di ridere. Ridere di cose che non ti eri accorto, ridere di cose fin troppo serie, ridere perché quella cosa lì l’avevi pensata pure tu. Ridere perché ridere è bello.
  • Manuale alternativo per lo studio dei classici: l’ho pensato subito. Appena leggerò o rileggerò uno dei classici citati (leggasi Moby Dick, tentativo numero 250) dovrò tenermi vicino quest’opera. E mentre andrò a caccia di quella cavolo di balena bianca, o mentre starò leggendo La fiera della vanità, o i Fratelli Karamazov, mi metterò a spulciare pure il libro di Sesto, per capire cose che da solo non capirei. Cose non necessariamente eclatanti, ma che possono mettere tutto su un piano diverso.
  • Far ridere la moglie mentre il pupo ti dorme accanto: vi consiglio però di farlo col silenziatore, che a ridere troppo forte il pupo appena addormentato si sveglia.
  • Scoprire una nuova realtà editoriale: è infatti il primo titolo targato Gorilla Sapiens che leggo e mi sono reso conto che a pubblicare un libro così possono essere solo persone belle e brave e che hanno un’idea chiara in testa. Quindi ho già lì pronto un altro titolo gorilloso che ci lascia intuire la genialità e la serietà di queste persone: Un tebbirile intanchesimo.

Sì, insomma… questo libro è davvero bello. Perché riesce, contemporaneamente, a prendere sul serio e a dissacrare tutto quello che viene citato, più la vita che viviamo. Perché in fondo si può, e si deve, riuscire a scherzare su tutto, tenendo però ben in mente che certe cose sono più vere di altre, che certi titoli sono più titoli di altri, che tutte le vite sono storie e che in ogni libro ci siamo dentro pure noi.

Moby Dick e altri racconti brevi
di Alessandro Sesto
164 pagine, 12,90 €, Gorilla Sapiens Edizioni

Tornare a St. Oswald

Tornare a leggere Joanne Harris è per me un tornare a casa. Sempre.
So che, una volta avviatomi in quel percorso che porta da pagina uno a pagina ‘ringraziamenti’ (la Harris li mette sempre, così come sempre ringrazia tutta la filiera del libro, compresa i lettori), posso essere sicuro di trovare una storia scritta bene, ricca di spunti e di inventiva e che ogni volta, in qualche modo, sa stupire. Questo è vero soprattutto quando si parla dei suoi thriller psicologici, sempre contraddistinti da un colpo di scena costruito con mattoni di false messe a fuoco e di uso coscienzioso della lingua (che in qualche modo risulta meno ‘divertente’ in italiano).
La lettura de La classe dei misteri era quindi una scelta sicura, e obbligata, per il mio desiderio di belle storie. Anche perché quello che in qualche modo è il suo prequel, La scuola dei desideri, è forse il libro della Harris che apprezzo maggiormente.

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Eppure è riuscita a stupirmi ancora. Di più. Più di quanto mi aspettassi.
Non tanto per il colpo di scena, che sapevo sarebbe spuntato in qualche punto, ma perché è riuscita a dare voce al vecchio professor Straitley in maniera ancora più convincente, più pregnante che nel precedente episodio.
E poi perché, al di là del thriller (una storia divisa tra passato e presente, con ex studenti e nuovi dirigenti), ha saputo scrivere una grandissima storia sulla scuola e sui mutamenti che sta vivendo.

È probabilmente questo il grande pregio de La classe dei misteri: una profonda conoscenza di questa grande macchina che è l’istruzione e la consapevolezza che qualcosa sta cambiando, che qualcosa sta evolvendo, e che non tutti vogliono (possono?) cambiare. Che non sempre cambiare è giusto. Che non sempre restare immobili è giusto. Che la scuola è sempre un esercizio complicato. Che niente è sicuro.

Ma che cosa è giusto?
Cosa è sbagliato?

Ci sono molti momenti, in questo romanzo, che provocano una gran rabbia. Rabbia verso alcuni personaggi, certo, ma che riassume la rabbia, e spesso l’impotenza, verso alcuni pensieri condivisi anche da chi ci sta attorno, da chi ci sta vicino nella vita reale. Sono molte le pagine, infatti, dedicate all’omofobia e al bullismo e al modo in cui questi problemi potrebbero essere affrontati in un istituto scolastica, in un istituto dove magari potresti essere stato tu, o potrebbe andare tuo figlio.

Ma… ancora, qual è il modo giusto per fare le cose? Esiste?
E quello sbagliato?
Stiamo solo invecchiando e non capiamo il presente?
Oppure sono gli altri a non capire?
E se nessun modo di agire fosse corretto?

Sono domande che mi sono posto spesso, durante la lettura. Anche perché la Harris gioca sul doppio, sulle maschere, sulle finzioni, quindi viene naturale chiedersi cosa sia vero e cosa sia giusto.

Viene anche naturale, però, decidere che posizione prendere, stabilire da che parte stare.

E forse è questo il pregio di un libro come La classe dei misteri, farti intuire che è estremamente importante prendere una decisione, la decisione più coerente col tuo essere. Non puoi (non devi!) stare a guardare sperando che tutto passi, sperando che niente colpisca te. Solo prendendo posizione si può davvero tentare, sperare, di fare qualcosa. Perché se non si fa niente, alla fine la piena travolgerà anche te.

La classe dei misteri
di Joanne Harris
Traduzione di Laura Grandi
480 pagine, 18,60 €, Garzanti

Movimenti

Non amo molto leggere autori autopubblicati. Non perché io creda che non abbiano talento, sicuramente qualcuno di loro ne ha da vendere, ma perché credo che certe cose non siano un diritto. È un diritto scrivere, ma non è un diritto venire pubblicati.
C’è poi da dire che io in primis, in quanto aspirante autore, non mi sento mai legittimato davvero a ‘vendere’ qualcosa che ho prodotto interamente io, se non c’è qualcuno (teoricamente autorevole) che dica: “sì, ne vale la pena”.
Questo per dire che faccio fatica a scegliere qualcosa in quell’oceano che è l’autopubblicazione, e quindi preferisco non scegliere nulla.

Questo succede pure quando gli autori stessi mi contattano. In genere (e me ne scuso) non rispondo o dico no. Ho sempre meno tempo per la lettura e dover leggere cose che non mi ispirano o che hanno un’alta percentuale di essere ciofeche (non perché tu sia necessariamente incapace, ma perché se tutti pubblicano per forza di cose è difficile trovare qualcosa di buono) non mi alletta.

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Con Vanessa Chizzini però è successa una cosa: si è dimostrata competente. Ha dimostrato di essere una lettrice attenta ai contenuti del mio spazio web, mi ha dato informazioni su di sé e sul testo che mi hanno fatto capire che lei poteva essere una persona capace. E quindi devo ringraziarla, oltre che per avermi fatto scoprire il suo libro, anche per consentirmi di dire che: ragazzi, non sono una onlus per autori esordienti, se volete farvi leggere dimostrate anche a noi blogger che vale la pena dedicarvi del tempo.

Lei l’ha fatto.
E ora che ho completato la lettura (scusa la lungaggine, Vanessa) posso dire che ne è valsa la pena.

La vertigine del caso è in verità la raccolta di due romanzi (L’eleganza matta e Vertigini e stravedimenti) che però hanno gli stessi tre protagonisti: Mic, Sam e le cabine spalmacrema.
Ecco, io direi di partire da queste ultime.

Le cabine spalmacrema sono delle cabine, appunto, che ti spalmano automaticamente la crema solare. (Io le proverei subito perché odio impiastricciarmi le mani!)
Sono un po’ il perno su cui ruotano queste due storie, che potremmo anche definire storia unica perché il viaggio che il lettore affronta, un po’ come il viaggio dei protagonisti, è un percorso sì a tappe, ma continuo. Con al centro appunto questi oggetti futuristici, che non offrono risposte o guizzi particolari alla trama… offrono piuttosto occasioni, punti di osservazione.
E questo percorso che noi compiamo, che i protagonisti compiono, non ha mete vere, se non forse il capire un po’ più se stessi attraverso la conoscenza di molti personaggi.

Sono i personaggi, infatti, il vero tesoro di questo testo.
Personaggi bizzarri, pieni, felici, casinisti, profondi, sensibili…
Nella sinossi si parla del libro come di romanzo che sconfina nei racconti e nella poesia. Ecco, direi che è anche una sorta di catalogo, di raccolta di fotografie che inquadra famiglie, donne, uomini, realtà, città. Magari catturati in momenti peculiari, in situazioni bizzarre e/o assurde, eppure così vivide e cariche da ammaliare, in qualche modo, la protagonista e noi.

Del resto, non è ciò che ci circonda che definisce anche noi?
E noi non riusciamo a definirci meglio osservando quelli che ci circondano?

Con una scrittura davvero ottima, Vanessa Chizzini ci racconta una storia allegra, divertente, capace di donare input al lettore senza che questo se ne accorga.

In somma, oltre ad avermi regalato dei bei momenti di lettura, questo libro mi ha donato pure speranza nell’autopubblicazione.
E ovviamente, insieme agli auguri di Natale, faccio anche molti in bocca al lupo a Vanessa.

p.s. vi lascio pure il link al blog dell’autrice, in modo che possiate raccogliere tutte le info di cui necessitate e che io non ho saputo darvi.

L’amicizia è un cane

L’amicizia è un accettarsi, non una sottomissione.
Non è un dare sempre ragione, un dare sempre abbracci, coccole, carezze, rassicurazioni. L’amicizia è più un condividere. Un esserci.

Questo è quello che mostra, con estrema dolcezza e molta ironia, Claire e Malù.

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Claire e Malù segue i preparativi della prima per il suo compleanno. Preparativi che durano un mese e che sono carichi di gioie e preoccupazioni e desideri, com’è giusto che sia quando si è ragazzini.

Inseguendo la festa di compleanno perfetta, però, Claire e la sua cagnolina Malù ci fanno conoscere le persone che stanno loro intorno: la mamma, il vicino e le amiche.
Sono personaggi, questi, che si dimostrano fin da subito molto diversi rispetto alla protagonista del fumetto (un tipetto tutto energia e sorrisi), e il bello è proprio questo. Sebbene possano scoppiare piccoli bisticci e qualche arrabbiatura, e sebbene Claire possa minacciare di non invitare nessuno al compleanno, alla fine tutti quelli che per lei contano qualcosa saranno presenti.
Perché si vogliono bene.
E poco importa se le barzellette che uno racconta non fanno ridere, se qualcuna si veste come una principessa o se qualcun’altra è un maschiaccio. Quello che conta è che si sia amici, e che gli amici possono (anzi devono) farti aprire gli occhi. Anche se aprirli potrebbe farti male. Anche se un suggerimento potrebbe farti arrabbiare.
In un certo senso, l’amicizia è una sfida ad accettare gli altri, ma soprattutto se stessi visti dagli altri.
È questa la grande lezione del fumetto.

E la parte che ho trovato più interessante è forse il fatto che Malù sia così protagonista della storia. Non solo perché, indubbiamente, serve per esprimere l’amore per gli animali. Ma anche, e soprattutto, perché Malù simboleggia l’amico in maniera perfetta. Il suo essere un cane risulta una metafora perfetta per l’amico in generale che, per forza di cose, è altro da te, e questo essere altro comporta avere pensieri diversi e opinioni diverse (opinioni che, tra l’altro, Malù esprime con grande ironia, almeno nei suoi pensieri).
Ecco allora che l’amicizia bambina-cane diventa simbolo di qualsiasi amicizia, perché l’amicizia è starsi vicini anche se non sempre ci si capisce alla perfezione.

Un fumetto da leggere fin che si è bambini, dagli otto anni in poi, ma che sa far sorridere anche chi, come me, ha qualche anno in più.

Il dottor Glas e la ricerca dell’infelicità

Esiste un  momento nella vita di ognuno di noi in cui si pensa (si scopre?) che tutto è vano. “Vanità di vanità.” direbbe Qoelet “Tutto è vanità.”
Non si tratta di un momento di sconforto, quanto piuttosto di un’accettazione che no, non siamo niente, in fondo, e che forse niente può davvero dare sollievo a questa situazione.

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Lo sa bene il dottor Glas che, in qualche modo, vive questa condizione da tutta la vita, tanto che un suo amico dirà che fa parte di quegli…

…uomini che difettano di ogni predisposizione alla felicità e che l’avvertono con penosa e inesorabile chiarezza. Tali uomini non aspirano alla felicità ma, semmai, cercano di dare un po’ di forma e di stile alla propria infelicità.

Il dottor Glas è una persona rispettata e benestante, un dottore appunto. Si definisce brutto e se ne dispiace, ma allo stesso tempo non ne fa davvero un dramma. Si tratta di una creatura intrappolata in una solitudine autoinflitta, tanto che, sebbene qualche volta ci pensi, non riesce a trovare la voglia di accettare, o almeno capire, le avances di una signora a lui interessata. Alla fine non avrà nemmeno la forza, il coraggio, e nemmeno l’intenzione, di dichiararsi alla donna che davvero gli interessa. Nemmeno nel momento più opportuno, quello che potrebbe cambiare le cose.

Mi avevano insegnato a pensare che la volontà di Dio consistesse sempre in quello che, più di tutto, andava contro la nostra volontà.

Questo suo mondo di ‘nulla’ viene messo in difficoltà proprio da questa donna alla quale non saprà dichiararsi.
Si tratta di una sua paziente, moglie di un sacerdote che il dottor Glas non sopporta. Lei ha un giovane amante e col marito non vuole più averci nulla a che fare, specialmente in ambiti intimi.
Il dottor Glas se ne invaghisce a tal punto che vuole trovare un modo per aiutarla nella sua ricerca della felicità. Qualsiasi modo verrà preso in considerazione. Qualsiasi.

La morale è uno degli utensili domestici,  non una divinità. Deve essere adoperata, non deve dominare. E deve essere adoperata con buon senso, con un granellino di sale. È saggio far proprie le usanze di dove ci si reca; è sciocco farlo con convinzione.

Questo romanzo-diario svedese, apparso per la prima volta nel 1905, non mancò di scandalizzare una società intera. Tratta infatti alcuni argomenti piuttosto delicati, come la violenza sessuale interna al matrimonio, ma anche l’aborto e l’eutanasia, senza dimenticarsi dell’omicidio, e lo fa in un modo molto diretto e spesso con idee opposte rispetto alla ‘morale’ comune.

Volere è saper scegliere.
Saper scegliere è saper rinunciare.

È un romanzo che per tutto il tempo ruota attorno alla domanda ‘cos’è giusto fare?’, ma è una domanda che, almeno per quanto riguarda le azioni del dottore,  non troverà mai una vera risposta, neanche a scelte fatte.

Il dottor Glas è una persona distaccata dal mondo. Lo osserva passare, lo indaga e lo studia, ma sente di farne parte a modo suo. Ed è proprio questo che gli consente di pensare a svariati argomenti in un modo ‘inedito’.
Ma cos’è che lo ha reso così? Cos’ha fatto in modo che quest’uomo di inizio Novecento pensasse così fuori dagli schemi, tanto da rimanere imprigionato in una sua visione di sé? Forse è lui a confessarcelo quando, durante un bellissimo flusso di pensieri a proposito di paesaggi considerati belli, si chiede:

…quale tipo di ambiente naturale mi sceglierei, se non avessi mai letto un libro, né avessi mai visto un’opera d’arte. Forse, non mi verrebbe neanche in mente di scegliere in quel caso; può darsi che allora l’arcipelago, con le sue piccole rocce, mi basterebbe. Tutte le mie idee e i sogni sulla natura sono probabilmente costruiti su impressioni che ho ricevuto dalla poesia e dall’arte.

La cultura è la causa di tutto?

Beato chi ha potuto dare qualcosa, almeno una volta, e non soltanto ricevere.

Oppure è la bellezza?

Mi chiedo anche se il dottor Glas non sia semplicemente una scusa. Anzi, non una scusa, ma una guida. Il dottor Glas è forse il nostro Virgilio? Quello che ci conduce tra gironi fatti di quotidianità e pensieri comuni nel tentativo di arrivare a quel fondo, a quel cuore di tutto che è il nostro vero io, quell’io che sa che, sebbene niente sembra valere la pena, noi questo niente lo vorremmo tutto.

Si vuole essere amati; in mancanza di questo, ammirati; in mancanza di questo, detestati e disprezzati. Si vuol suscitare negli uomini un sentimento di qualche tipo. L’anima rabbrividisce dinanzi al vuoto e vuole avere contatti a qualunque costo.

O forse non è che vogliamo tutto. E non è nemmeno che non vogliamo niente. Forse lottiamo tra il tutto e il niente per tentare di capire noi e chi ci sta attorno, per tentare di capire cosa vogliamo, cosa vogliono, cosa pensiamo, cosa pensano. Forse traballiamo tra l’infelicità e la felicità nella speranza di capire la vita, di dargli un senso. Ma il dottor Glas è più intelligente di noi:

… forse non si deve capire la vita. tutta questa storia di spiegare e di capire, tutta questa caccia alla verità è forse una strada sbagliata.
Noi benediciamo il sole, perché viviamo esattamente alla distanza necessaria. Alcuni milioni di miglia più vicino o più lontano e verremmo inceneriti oppure geleremmo. E se fosse così anche per la vita?

***

Il dottor Glas, di Hjalmar Soderberg
Traduzione di Maria Cristina Lombardi
Lindau, 166 pagine, 16,00 €