Eccomi!

Sono passati una decina d’anni tra Molto forte, incredibilmente vicino ed Eccomi, rispettivamente penultimo e ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer, che nel mentre ha comunque scritto un saggio sugli orrori dell’allevamento intensivo (ovvero Se niente importa) e una sorta di operazione artistica, Tree of codes, ovvero un libro creato tagliuzzando un altro libro, di Bruno Schulz, The street of crocodiles.

Rischiavano di passare altri dieci anni prima che io mi sentissi in grado di dire qualcosa a proposito.

Poi è successo questo.
Recentemente, per un certo periodo, non sono riuscito ad avvicinarmi a un libro (e la cosa ha ovviamente influito pure sul blog) perché nell’unico momento in cui mi sarebbe stato possibile, ossia la sera, venivo ‘dolcemente costretto’ ad abbandonarmi al sonno.
In pratica, il pupo voleva che stessi con lui finché si addormentava, solo che nello sdraiarmi (e no, non mi era concesso rimanere seduto), i miei sensi venivano meno e la stanchezza si faceva sentire, ecc.
Ho tentato di svincolarmi, ma quando un nanerottolo ti dice che ti vuole lì perché gli piaci, beh, non ci sono molte alternative: rimani lì. Anche perché non può esistere niente di più importante e di più bello di quel “perché mi piaci”.

Parto da qui per dire che i figli possono mandare all’aria un matrimonio. E per dire che, in un certo senso, è proprio di questo che parla Eccomi.

Voi, creature prive di figli, mi direte: “ma come, manderesti all’aria un matrimonio perché tuo figlio non ti fa leggere?”
Ah! Beata ignoranza!
No. Il punto non è che io non riesco a leggere, il punto è che un figlio ti cambia la vita.
“Eh, bella scoperta!” direte voi.
“No.” Vi rispondo io. “Voi non capite. Ve la cambia in un modo che nessuno può comprendere fino a quando non ne sforna uno, di questi marmocchi.”
Lo so che sembrano tutte frasi fatte. Eppure è una verità inconfutabile il fatto che per quanto tu possa pensare di essere preparato all’arrivo di un figlio, lui ti travolgerà lo stesso. Tutto quello che pensavi non basta a descrivere quello che sarà. Sia nel bello che nel brutto.

Un figlio ti stravolge la vita in maniera sottile.

Il problema non è che non dormi la notte. Il problema è che di notte pensi a lui.
Il problema non è l’odore della cacca. È che pensi “ho abbastanza pannolini?”, “è normale questo colore?”, “sono tre giorni che non fa la cacca, cosa devo fare?”
Il problema non è non leggere. Sei contento di non farlo se è per stare con il tuo bambino, ma c’è il pericolo che tu venga prosciugato di te stesso.
Il vero rischio è che non esista nient’altro.
E diventa normale, in una famiglia, finire col pensare quasi solo ed esclusivamente ai figli, e questo a scapito delle proprie vite, delle proprie esigenze.

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Ed ecco che si arriva ad Eccomi. Una parola che, in qualche modo, rimanda al figlio e alla sua centralità/non centralità, visto che è la risposta che Abramo da al Signore quando questi gli chiede di immolare il figlio. L’unico figlio. Quello tanto desiderato.
Che poi è anche la risposta che dai quando un figlio ti chiama dall’altra stanza: “Papàààà!” “Eccomi!”

I protagonisti di questo romanzo sono genitori che si sono dimenticati di se stessi. Genitori che si sono dedicati, in qualche modo, ai figli. Sempre e per sempre. Viene inserita in fretta, infatti, la figura del figlio maggiore che ha fatto qualcosa che non andava fatto. E diventa di conseguenza centrale il conflitto (aperto? nascosto?) dei due genitori che non la pensano allo stesso modo.
Allo stesso tempo è centrale il rapporto tra il protagonista Jacob e suo padre.
Ed è centrale pure il rapporto tra Jacob, ma non solo, e Israele, la loro patria, quello che in effetti può essere considerato un’ulteriore relazione genitore-figli.

E potrebbe essere centrale che Safran Foer e la moglie si siano separati dopo dieci anni di matrimonio e dopo due figli?
Ma qui, bisogna dirlo, siamo nel puro gossip.

Quello che conta davvero è che Eccomi è un romanzo sullo scioglimento di una famiglia. Solo che non è uno scioglimento dovuto all’odio, o alla mancanza di amore. No, è uno scioglimento dovuto all’essersi smarriti, all’aver perso di vista se stessi.
Il lettore potrà pure tifare per una riconciliazione finale, ma in qualche modo si sa che, comunque vada, la fine non sarà davvero lieta.

Attenzione. Con tutto ciò non voglio dire che i figli provocano indiscutibilmente la fine di una relazione. Non sarebbe vero. Non sarebbe giusto. Dico però che questo romanzo racconta di come col tempo ci sia il rischio di perdere se stessi a causa di molte cose esterne, tra cui i figli, che per ovvie ragioni portano ad amplificare sentimenti che magari rimarrebbero latenti ancora per un po’.
Sia Jacob che Julia non sanno più chi sono. Hanno dedicato le loro vite alla famiglia più che a qualsiasi altra cosa, ed è stato bello, ma allo stesso tempo è stato prosciugante. Ora non sanno più chi sono, non si riconoscono, e non riconoscendosi non riescono nemmeno a fare l’amore. Hanno agito per così tanto tempo pensando ad altri, che non ricordano più chi erano loro, da soli. Chi erano come coppia. Non ricordano cos’erano prima, e non ricordandoselo non sono riusciti ad evolvere insieme.

Ed è qui che entra in scena la distruzione di Israele.
Di pari passo con lo disfacimento del matrimonio di Jacob e Julia c’è lo disfacimento di un popolo. Potrebbe apparire come un qualcosa di scollegato, ma non lo è. Jacob tenta di ritrovare se stesso cercando una connessione con le proprie radici (non è infatti un vero ebreo praticante, al momento). Tenterà di trovare una strada per capire se stesso, per riscoprirsi, per ricrearsi, magari tentando di ‘attaccarsi’ al cugino venuto in visita…
La fine di Israele è un po’ il cancellare una possibilità di riconciliarsi col suo passato.

Safran Foer ha messo in piedi quello che forse è il suo lavoro più ambizioso.
C’è riuscito?
In parte.

Innanzitutto bisogna ‘avvisare’ che si tratta di un libro molto diverso dai primi due. In Ogni cosa è illuminata  e Molto forte, incredibilmente vicino c’era una sorta di componente fiabesca, poetica. Qui no. Qui, pur mantenendo alcune caratteristiche della sua scrittura, come i bambini ‘geniali’, la narrazione è in verità più cruda, più ‘realista’ in qualche modo. E con realista intendo una sensazione di disincanto nel raccontare, una narrazione più ‘fotografica’, e non un realismo delle cose raccontate. Ma questo non è un dato negativo, solo una constatazione.

Il problema è forse che l’autore tende a perdersi un po’.
Ci sono momenti in cui probabilmente viene messa troppa carne al fuoco e quindi qualcosa scappa dalle mani e diventa più ‘pasticciato’, una sorta di problema di gestione ‘del traffico’. Le linee narrative si intrecciano e ci scappa qualche momento in cui si ha difficoltà a capire dove si sta andando a parare, dove quel tutto risulta… troppo.

Detto questo, Eccomi rimane un grandissimo romanzo. Un romanzo fatto di relazioni che mutano perché le persone stesse sono mutate, volenti o dolenti. Un romanzo fatto di scelte che portano a conseguenze. Un romanzo che racconta un po’ la storia di ogni famiglia, coi figli che non vogliono essere come i genitori, con le radici che a tratti vorremmo estirpare e a tratti far rifiorire, con un matrimonio che si sente stanco, perché si è dato tutto, si è dato troppo, e a donare tutto per un unico scopo una persona perde la testa.

È anche un romanzo su molto altro. Sull’essere diversi, sul sentirsi a casa, sul sentirsi inadeguati, desiderati, abbandonati, amati.
È un romanzo troppo grande per essere ben commentato su un blog. E poi c’è da dire che ogni romanzo viene trasformato dal lettore che lo legge, e si da il caso che io abbia un figlio piccolo che tende a prosciugarti, quindi forse mi sono focalizzato sull’argomento che più mi vedeva coinvolto. O forse ho visto una storia che Safran Foer non aveva nemmeno considerato. O forse mi sono inventato tutto. Forse ne ho capito più di lui.
Forse è questo che dovrebbero fare i libri.

Eccomi
di Jonathan Safran Foer
Traduzione di Irene Abigail Piccinini
672 pagine, 22,00 €, Guanda

Il gigante e il pettirosso

Ho un debole per i gialli alla Sherlock Holmes.
Intendo quei libri in cui i casi vengono risolti con l’intelligenza, con la furbizia, senza uso di armi e violenza e senza grandi scene d’azione.
Tra i miei preferiti in assoluto c’è Rex Stout, e il suo Nero Wolfe, anche perché dentro i suoi libri ci sono ottime pagine di cibo e orchidee, e la cosa non mi spiace affatto.
Mi piace il libro parlato, chiacchierato, che avanza per deduzioni e interrogatori, per qualche pedinamento, anche, ma per è poco altro. Forse perché io non sono molto bravo a parlare, ma ascoltare gli altri mi piace moltissimo.

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È stata quindi una piacevolissima sorpresa scoprire che il duo di detective ideato da J. K. Rowling, pardon! Robert Galbraith, sia composto da Cormoran Strike, veterano di guerra, e da Robin Ellacott, sua intelligente segretaria, ossia una coppia che si aggira tra casi misteriosi che necessitano di menti brillanti, non di muscoli in vista (sebbene Cormoran non sia certo mingherlino).

Che gioia aver trovato dei gialli british nell’anima, che mi ricordano illustri predecessori ma che sanno donare cose nuove, ambientati in luoghi nuovi, con nuove persone.

E che bello avere un giallo da risolvere (io, in verità, non lo risolvo affatto perché sono negato) ma anche una trama che prosegue di volume in volume e che ci racconta del privato di Cormoran e Robin, un privato che te li fa tremendamente amare, questi due detective.

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E poi è divertente sbirciare dentro il mondo della moda (nel primo volume, Il richiamo del cuculo), o dentro il mondo del ‘pettegolezzo letterario’ e delle case editrici (nel secondo, Il baco da seta).
È piacevole ammirare un’assistente come Robin, che sa guidare come un pilota professionista, che è intraprendente e capace, che sa essere una persona normale e allo stesso tempo un modello da seguire.
È bello, in somma, avere un nuovo detective a cui potersi affezionare, del quale aspettare con ansia una nuova avventura, da citare come esempio quando di arguzia e incorruttibilità!

È bello avere Cormoran e Robin. Ecco. È estremamente bello e non c’è altro da aggiungere. Perché a volte i libri devono essere ‘semplicemente’ piacevoli e saper ‘semplicemente’ regalare delle ore di divertimento e buona compagnia.

Che bello che ci siano questi libri!

Il richiamo del cuculo
di Robert Galbraith
Traduzione di A. Casella e A. Ragusa
560 pagine, 12,00 €, Salani

Il baco da seta
di Robert Galbraith
Traduzione di A. C. Cappi
555 pagine, 12,90 €, Salani

Tornare a St. Oswald

Tornare a leggere Joanne Harris è per me un tornare a casa. Sempre.
So che, una volta avviatomi in quel percorso che porta da pagina uno a pagina ‘ringraziamenti’ (la Harris li mette sempre, così come sempre ringrazia tutta la filiera del libro, compresa i lettori), posso essere sicuro di trovare una storia scritta bene, ricca di spunti e di inventiva e che ogni volta, in qualche modo, sa stupire. Questo è vero soprattutto quando si parla dei suoi thriller psicologici, sempre contraddistinti da un colpo di scena costruito con mattoni di false messe a fuoco e di uso coscienzioso della lingua (che in qualche modo risulta meno ‘divertente’ in italiano).
La lettura de La classe dei misteri era quindi una scelta sicura, e obbligata, per il mio desiderio di belle storie. Anche perché quello che in qualche modo è il suo prequel, La scuola dei desideri, è forse il libro della Harris che apprezzo maggiormente.

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Eppure è riuscita a stupirmi ancora. Di più. Più di quanto mi aspettassi.
Non tanto per il colpo di scena, che sapevo sarebbe spuntato in qualche punto, ma perché è riuscita a dare voce al vecchio professor Straitley in maniera ancora più convincente, più pregnante che nel precedente episodio.
E poi perché, al di là del thriller (una storia divisa tra passato e presente, con ex studenti e nuovi dirigenti), ha saputo scrivere una grandissima storia sulla scuola e sui mutamenti che sta vivendo.

È probabilmente questo il grande pregio de La classe dei misteri: una profonda conoscenza di questa grande macchina che è l’istruzione e la consapevolezza che qualcosa sta cambiando, che qualcosa sta evolvendo, e che non tutti vogliono (possono?) cambiare. Che non sempre cambiare è giusto. Che non sempre restare immobili è giusto. Che la scuola è sempre un esercizio complicato. Che niente è sicuro.

Ma che cosa è giusto?
Cosa è sbagliato?

Ci sono molti momenti, in questo romanzo, che provocano una gran rabbia. Rabbia verso alcuni personaggi, certo, ma che riassume la rabbia, e spesso l’impotenza, verso alcuni pensieri condivisi anche da chi ci sta attorno, da chi ci sta vicino nella vita reale. Sono molte le pagine, infatti, dedicate all’omofobia e al bullismo e al modo in cui questi problemi potrebbero essere affrontati in un istituto scolastica, in un istituto dove magari potresti essere stato tu, o potrebbe andare tuo figlio.

Ma… ancora, qual è il modo giusto per fare le cose? Esiste?
E quello sbagliato?
Stiamo solo invecchiando e non capiamo il presente?
Oppure sono gli altri a non capire?
E se nessun modo di agire fosse corretto?

Sono domande che mi sono posto spesso, durante la lettura. Anche perché la Harris gioca sul doppio, sulle maschere, sulle finzioni, quindi viene naturale chiedersi cosa sia vero e cosa sia giusto.

Viene anche naturale, però, decidere che posizione prendere, stabilire da che parte stare.

E forse è questo il pregio di un libro come La classe dei misteri, farti intuire che è estremamente importante prendere una decisione, la decisione più coerente col tuo essere. Non puoi (non devi!) stare a guardare sperando che tutto passi, sperando che niente colpisca te. Solo prendendo posizione si può davvero tentare, sperare, di fare qualcosa. Perché se non si fa niente, alla fine la piena travolgerà anche te.

La classe dei misteri
di Joanne Harris
Traduzione di Laura Grandi
480 pagine, 18,60 €, Garzanti

La nostra memoria

Shakespeare si sbagliava.

Siamo fatti di memoria. Non di sogni.

Pensateci un attimo.
Siamo il frutto del nostro vissuto. Ogni scelta che compiamo la facciamo in base a pensieri che sono nati seguendo le tracce di ciò che ci ha portato fin qui.
Amo leggere perché mi ricordo che quando ho letto Quel libro ho provato determinate emozioni. Amo il Natale perché mi ricordo i Natali passati in famiglia. Amo il bosco perché mi ricorda la mia infanzia. Amo Lione perché mi ricorda di tanti ricordi. Facciamo sogni in base a quello che ci ricordiamo di aver amato, passato, vissuto, mangiato, bevuto, visto.

Solo che la memoria non è la storia.
La memoria è la nostra percezione della storia che abbiamo vissuto.
Quindi, in un certo senso, siamo frutto di errori. O di possibili errori.

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La memoria è la protagonista di La memoria di Old Jack. La memoria di Old Jack, non Old Jack. Lo dice anche il titolo. E infatti per tutto il testo noi usciamo dal quotidiano di Jack, per entrare nella sua storia. Anzi, no. Non nella sua storia, ma nei suoi ricordi, ossia nella sua versione della storia.

È un po’ come nuotare in un mare leggermente mosso, leggere questo libro. Perché sebbene ci si possa sbracciare, sono le onde a dettare i ritmi, i movimenti. Ed ecco quindi che per un momento siamo nel presente e poco dopo nel passato. Poi di nuovo nel presente e successivamente si ritorna nel passato.
Si va e si viene.
E in questo andare e venire si scopre chi è Jack. Chi è stato e chi è diventato. Tutto grazie ai ricordi. Alla memoria.

Dopo averne molto sentito parlare mi sono finalmente deciso a leggere un testo di Wendell Berry.
Non so se questo sia stato il romanzo giusto per cominciare, di certo ha saputo regalarmi questa idea che non ha propriamente a che fare con le vicende narrate nel libro, ma più nel modo in cui la narrazione è gestita. Questo balzare avanti e indietro. Questo rimanere impantanati in quello che è stato.

E allora eccomi che ringrazio Berry per quello che mi ha donato, ossia il dubbio che la vita sia basata su un malinteso. Perché… se i ricordi fossero falsi? O meglio, se i ricordi che possiedo fossero (e probabilmente lo sono) non del tutto veritieri? Se il mio ricordo di qualcosa fosse storpiato dal mio sguardo? Allora potrei sbagliarmi su molte cose. Allora, forse, varrebbe la pena di rivangare il passato con uno sguardo diverso, più mite e meno interessato. Forse varrebbe la pena di ripensarsi. E non è un buon augurio, quello di ripensarsi, quando un nuovo anno sta per iniziare?

La memoria di Old Jack
di Wendell Berry
Traduzione di Vincenzo Perna
240 pagine, 19,50 €, Lindau

Movimenti

Non amo molto leggere autori autopubblicati. Non perché io creda che non abbiano talento, sicuramente qualcuno di loro ne ha da vendere, ma perché credo che certe cose non siano un diritto. È un diritto scrivere, ma non è un diritto venire pubblicati.
C’è poi da dire che io in primis, in quanto aspirante autore, non mi sento mai legittimato davvero a ‘vendere’ qualcosa che ho prodotto interamente io, se non c’è qualcuno (teoricamente autorevole) che dica: “sì, ne vale la pena”.
Questo per dire che faccio fatica a scegliere qualcosa in quell’oceano che è l’autopubblicazione, e quindi preferisco non scegliere nulla.

Questo succede pure quando gli autori stessi mi contattano. In genere (e me ne scuso) non rispondo o dico no. Ho sempre meno tempo per la lettura e dover leggere cose che non mi ispirano o che hanno un’alta percentuale di essere ciofeche (non perché tu sia necessariamente incapace, ma perché se tutti pubblicano per forza di cose è difficile trovare qualcosa di buono) non mi alletta.

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Con Vanessa Chizzini però è successa una cosa: si è dimostrata competente. Ha dimostrato di essere una lettrice attenta ai contenuti del mio spazio web, mi ha dato informazioni su di sé e sul testo che mi hanno fatto capire che lei poteva essere una persona capace. E quindi devo ringraziarla, oltre che per avermi fatto scoprire il suo libro, anche per consentirmi di dire che: ragazzi, non sono una onlus per autori esordienti, se volete farvi leggere dimostrate anche a noi blogger che vale la pena dedicarvi del tempo.

Lei l’ha fatto.
E ora che ho completato la lettura (scusa la lungaggine, Vanessa) posso dire che ne è valsa la pena.

La vertigine del caso è in verità la raccolta di due romanzi (L’eleganza matta e Vertigini e stravedimenti) che però hanno gli stessi tre protagonisti: Mic, Sam e le cabine spalmacrema.
Ecco, io direi di partire da queste ultime.

Le cabine spalmacrema sono delle cabine, appunto, che ti spalmano automaticamente la crema solare. (Io le proverei subito perché odio impiastricciarmi le mani!)
Sono un po’ il perno su cui ruotano queste due storie, che potremmo anche definire storia unica perché il viaggio che il lettore affronta, un po’ come il viaggio dei protagonisti, è un percorso sì a tappe, ma continuo. Con al centro appunto questi oggetti futuristici, che non offrono risposte o guizzi particolari alla trama… offrono piuttosto occasioni, punti di osservazione.
E questo percorso che noi compiamo, che i protagonisti compiono, non ha mete vere, se non forse il capire un po’ più se stessi attraverso la conoscenza di molti personaggi.

Sono i personaggi, infatti, il vero tesoro di questo testo.
Personaggi bizzarri, pieni, felici, casinisti, profondi, sensibili…
Nella sinossi si parla del libro come di romanzo che sconfina nei racconti e nella poesia. Ecco, direi che è anche una sorta di catalogo, di raccolta di fotografie che inquadra famiglie, donne, uomini, realtà, città. Magari catturati in momenti peculiari, in situazioni bizzarre e/o assurde, eppure così vivide e cariche da ammaliare, in qualche modo, la protagonista e noi.

Del resto, non è ciò che ci circonda che definisce anche noi?
E noi non riusciamo a definirci meglio osservando quelli che ci circondano?

Con una scrittura davvero ottima, Vanessa Chizzini ci racconta una storia allegra, divertente, capace di donare input al lettore senza che questo se ne accorga.

In somma, oltre ad avermi regalato dei bei momenti di lettura, questo libro mi ha donato pure speranza nell’autopubblicazione.
E ovviamente, insieme agli auguri di Natale, faccio anche molti in bocca al lupo a Vanessa.

p.s. vi lascio pure il link al blog dell’autrice, in modo che possiate raccogliere tutte le info di cui necessitate e che io non ho saputo darvi.

La bambina d’inchiostro

La bambina d’inchiostro lasciava tracce ovunque passasse.
Potevano essere tracce blu, se la giornata era buona. Nere, se il suo umore era tenebroso. Rosso se era innamorata o profondamente arrabbiata con qualcuno. Potevano essere tracce bianche se era notte, perché le illuminavano il passato. Potevano avere altri colori, perfino, ma era difficile, perché il rosa, o il giallo, o l’arancione richiedono grande fiducia in se stessi e nel prossimo, e averle sempre entrambe è quasi impossibile.

 

Il bambino fatto di bianco voleva la bambina d’inchiostro.
La voleva perché lui era bianco e lei no.
La voleva perché lei lasciava tracce, e lui no.
La voleva perché lei sapeva cambiare, mentre lui no.

 

Allora un giorno il bambino fatto di bianco inseguì la bambina d’inchiostro. Non fu difficile, perché il sentiero scelto era percorso da una linea blu che indicava la giusta via.
La bambina d’inchiostro si fece nera quando capì che il bambino fatto di bianco non demordeva e continuava a pedinarla. Si mise a correre per sfuggirgli, ma si mise a correre anche lui. Tentò di nascondersi, ma la sua natura la tradiva di continuo. Poi, nella corsa, mise un piede in fallo e cadde in un lago.
Lei ci scomparve dentro e l’acqua si tinse di scuro.
Il bambino fatto di bianco arrivò e vide quello specchio di blu notte.
Vi si immerse dentro quasi febbricitante, colmo di speranza, e quando ne uscì, ecco, non era più il bambino fatto di bianco, ma il bambino fatto di scuro.
Si dimenticò della bambina saltata nell’acqua e tornò a casa felice.

Solo sulla porta della sua abitazione si accorse che lui non aveva lasciato tracce dietro di sé.

Il limite della meraviglia

C’è un limite alla meraviglia?
C’è un limite oltre il quale la nostra fantasia non può spingersi?
C’è un limite?

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Me lo chiedo ogni volta che sfoglio Martedì, uno dei capolavori firmati David Wiesner, da poco arrivato in Italia grazie a Orecchio Acerbo.

Questo silent book (ovvero libro senza parole) racconta la storia di un gruppo di rane che, una notte, inizia inspiegabilmente, e con grande sorpresa delle stesse rane, a volare per campagne e città, visitando strade e case e scene apparentemente famigliari ma che qui assumono una dimensione completamente nuova.

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Che cosa vuole dirci, Wiesner?

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Probabilmente niente.
Probabilmente gli è venuta in mente una storiella bizzarra e ha voluto metterla su carta, perché qualsiasi storiella, sotto le sue mani, prende vita con forza.

Eppure io credo che questa storia possa farci riflettere sul senso di meraviglia. Su quanto noi tendiamo a osservare il tutto pieni di domande a cui DOBBIAMO trovare una risposta a tutti i costi, finendo così col perdere la possibilità di semplicemente vedere, e non studiare.

Trovo infatti interessante che alla fine del volumetto ci sia un’immagine che sta ad indicare proprio la partenza di indagini volte a chiarire un fenomeno apparentemente inspiegabile.
E tra l’altro, qual è questo fenomeno?
Perché nel libro solo un signore sembra, forse, intravedere (ma giusto con la coda dell’occhio), questo bizzarro volo.

Gli uomini devono chiarire. Devono capire.
Le rane, invece… le rane non capiscono, ma si godono il viaggio.

Esiste, quindi, un limite alla meraviglia?
Forse sì. E forse per superarlo basterebbe, giusto ogni tanto, godersela. E basta.