La lezione del maestro

Nel saggio Fuochi, contenuto ne Il mestiere di scrivere, Raymond Carver racconta che, prima di diventare l’autore di Cattedrale, la scelta del racconto (e della poesia) come forma narrativa prediletta è stata ‘forzata’ dalla sua condizione famigliare:

Erano comunque le circostanze a imporre, fino al limite estremo, le forme che la mia scrittura avrebbe potuto assumere. […] Fossi stato capace di mettere insieme i miei pensieri e di concentrare le mie energie su un romanzo, dico, non mi sarei comunque trovato nella condizione di poter attendere un pagamento che, se pure fosse arrivato, sarebbe rimasto per strada per qualche anno. Non riuscivo a vederla, la strada. Dovevo mettermi a tavolino e scrivere qualcosa da finire ora, stasera, al massimo domani sera, non più tardi, al ritorno dal lavoro e prima di smarrire l’interesse.

Due figli piccoli e un “lavoro di merda” gli facevano avere poco tempo e pochi soldi. Da qui l’esigenza di ottimizzare entrambi.

Un pensiero simile a quello di Carver deve averlo avuto pure il giornalista Theodore Child, che trovava nella moglie e nei figli la causa della scarsa qualità letteraria delle ultime opere di Alphonse Daudet. Secondo Child, avere una famiglia portava a produrre indiscriminatamente a buon mercato. Con le relative conseguenze.

La famiglia come ‘rovina’ dell’arte, in pratica.

E noi sappiamo quale fosse il pensiero di Child perché il suo amico Henry James, in data 5 gennaio 1888, annotò nel suo taccuino proprio queste esternazioni, dei pensieri che porteranno lo scrittore americano naturalizzato inglese a comporre una novella ambigua come La lezione del maestro, incentrata proprio sull’idea della vita matrimoniale come impiccio alla scrittura.
L’idea non doveva comunque essere del tutto nuova a James. Nel suo diario, infatti, in data 4 luglio 1926, Virginia Woolf annota un incontro con H. G. Wells in cui all’autore viene chiesto proprio di parlare del collega James.

Poi si è alzato per andare; gli abbiamo chiesto di restare e di parlarci di Henry James. Così si è seduto. Oh mi piacerebbe restare e parlare tutto il pomeriggio, ha detto. Henry James era un formalista. Pensava sempre ai vestiti. Non era amico intimo di nessuno – nemmeno di suo fratello; non si era mai innamorato.

Un’assenza di famiglia, quindi. Anche qui. E indubbi risultati in campo letterario.
Era destino. Tutto questo non poteva non finire, prima o poi, in qualche opera.

f434b64d08afce8af2d17fcc83f4cf43_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy

La Lezione del maestro racconta di un giovane scrittore, Paul Overt, che arriva a conoscere, in parte grazie a una ragazza di cui si innamorerà, l’autore da lui idolatrato Henry St. George. Questi mette in guardia il giovane discepolo dalle insidie dell’amore e della famiglia che considera i nemici principali della creatività. Lo invita a seguire la sua vena letteraria senza congiungersi con nessuna e Overt lo ascolta, scappando da tutto per circa due anni. Al suo ritorno avrà tra le mani quello che sembra un capolavoro, ma verrà a conoscenza di una notizia che sembra farsi beffe del suo sacrificio.

La lezione del maestro è una novella apparentemente molto semplice. La trama è lineare, priva di grandi risvolti e, anzi, quello che potremmo definire il ‘colpo di scena’, o meglio la ‘beffa finale’, è in realtà piuttosto prevedibile.
La chiave di tutto è però la conclusione.
Il finale che a un certo punto il lettore riesce a prevedere, quando ci viene raccontato da James risulta molto più ambiguo di quanto ci si potrebbe aspettare e carica l’intera vicenda di un dubbio che non si risolve.

Del resto, questa è parte delle caratteristiche del lavoro di James, come ci fa infatti notare Michel Butor nel saggio The Europeans e The Bostonians, posto a prefazione dell’edizione Mondadori de Gli Europei:

James ha trattato con attenzione sempre maggiore scene scelte con sempre maggior cura in base all’ampiezza delle loro implicazioni. Egli si impegna a restituire, come uno studioso di fenomenologia, un'”apparenza” […] di qui l’importanza della costruzione delle sue storie del o dei punti di vista a partire dai quali esse sono raccontate, nonché di quello che non si sa, che si indovina, si intuisce.

Ecco, La lezione del maestro regala al lettore molti ‘non si sa’.

St. George, il maestro, ha dato un consiglio a cui credeva davvero? Oppure il suo era un escamotage per sbarazzarsi del giovane Overt o, perché no, per prendersi semplicemente gioco di lui? E Overt crede davvero alle parole del maestro, pur avendo conosciuto la sua famiglia? E Marian Fancourt, la bella ragazza di cui si innamora il protagonista, in soldoni, ci è o ci fa? È davvero una ragazza arguta, colta, intelligente come spesso ci viene descritta? Oppure anche in questo caso siamo dinanzi a una bugia e la verità è che si tratta dell’ennesima sempliciotta bella e ricca per le cui grazie un intellettuale potrebbe pure chiudere un’occhio sulla mancanza intellettiva?

Ma le domande potrebbero non finire qui.
Il dubbio che si insinua a fine lettura potrebbe andare più in profondità e ‘sconvolgere’ tutta l’idea che ci eravamo fatti di questa storia. Non solo, quindi, ci ritroviamo a metter in dubbio il nodo centrale del racconto, ovvero il consiglio del maestro al suo discepolo, ma anche tutto quanto ci viene raccontato prima. Ecco allora che iniziamo a dubitare delle reali capacità di Overt come scrittore, per esempio, o del suo pensiero circa le ultime opere del suo idolo. E sarà poi davvero un capolavoro, quello che ha scritto nei due anni di esilio volontario? E se non fosse andato in esilio, che risultati avrebbe ottenuto? E St. George, da sposato, davvero non riuscirà più a scrivere una grande opera?

henry-james

Henry James

La bravura dell’autore sta nel ‘riscrivere’ tutto quanto è stato raccontato prima, con l’ausilio delle sole ultime pagine. Perché una volta chiuso il volume, viene spontaneo rivedere l’intera vicenda sotto un’altra prospettiva. Viene naturale voler ripercorrere l’intera narrazione alla ricerca di indizi, indicazioni, risposte.
Ma non c’è presa di posizione.
Partendo da un discorso che vuole puntare sul rapporto arte-famiglia, sul come l’una influenzi l’altra e viceversa, James racconta una storia in cui si rifiuta di dare una risposta che sappia confermare o contrastare quanto esposto dall’amico Child. Rimane neutrale sebbene la sua vita possa lasciar supporre altro.

Ma il lettore riuscirà a rimanere altrettanto neutrale?
Oltre alle svariate ambiguità scatenate dall’autore a fine lettura, l’ennesimo dubbio che è sorto in me riguarda la possibilità che questo racconto serva a leggere più noi che il pensiero dell’autore. Certo, l’arte in genere dovrebbe (anche) servire a conoscerci meglio, ma credo che in questo caso ciò assuma contorni più ‘concreti’. Sebbene James non fornisca davvero prove circa la veridicità di una teoria piuttosto che di un’altra, quasi inevitabilmente ogni lettore è portato, per sua natura, a ritenere più probabile una sola delle possibili realtà. Mi verrebbe anche da pensare che l’ipotesi più diffusa sia quella che vede Overt come il personaggio caduto in una trappola ben congeniata dal suo ‘rivale’, ma senza per forza di cose entrare nello specifico, ritengo possa essere interessante che ogni lettore chieda a se stesso cosa crede. Perché mentre facevo ricerche per questo post, mi è capitato di imbattermi anche in alcuni commenti che definivano questo libretto come per nulla ambiguo… e non è questa una cosa stupefacente? Non è forse in questo modo che la narrazione di James ci sta regalando qualcosa di davvero interessante?
Come intendiamo, noi, questo rapporto tra famiglia e arte? A chi ci viene da credere?A cosa? E questa nostra propensione cosa dovrebbe raccontarci di noi stessi?

Forse, dunque, non è tanto il pensiero di James a contare. Non è l’idea che si è fatto Overt o il vero piano di St. George ad avere peso. Siamo noi. È quello che pensiamo noi a pesare, a definire il tutto, anche quanto sta fuori dal libro.

***

La lezione del maestro, di Henry James
Traduzione di Maurizio Ascari
108 pagine, 11,00 €, Adelphi

Il mestiere di scrivere, di Raymond Carver
Traduzione di Riccardo Duranti
176 pagine, 12,00 €, Einaudi

The Europeans e The Bostonians, di Michel Butor
contenuto in
Gli Europei, di Henry James
Traduzione di B. Bini
265 pagine, 9,00 €, Mondadori

Annunci

Il primo desiderio

Cos’ha di speciale il primo amore?
Quella prima volta in cui ci troviamo a essere completamente ossessionati da una persona, chiamiamola amore, rimane lì per sempre. Diventa il nostro modo personale di amare e desiderare che trace le parcours de toute une vie, traccia la strada di tutta una vita.*

Ecco cos’è Chiamami col tuo nome. Esattamente questo. La storia di un primo amore. Ossessivo. Intenso. A tratti perfino antipatico. Eccitante. Liquido, perché assume la forma di ogni tuo momento.

Potrei fermarmi adesso. Dovei forse smettere subito di parlare di questo romanzo di André Aciman, famoso per essere stato trasposto in un film diretto dall’italiano Luca Guadagnino, candidato a quattro premi Oscar (ha vinto poi ‘solo’ la Miglior Sceneggiatura non originale). Dovrei fermarmi perché forse non c’è molto altro da dire. O almeno non c’è altro che potrebbe invogliarvi di più a leggerlo.

9788823517578_0_0_1573_75

Chiamami col tuo nome mi ha fatto innamorare di un sentimento che, all’epoca, odiai con tutto me stesso.
Nella storia del giovane Elio, 17 anni, che si innamora di Oliver, americano, 24 anni, c’è infatti quell’insieme di sentimenti che costituisce il primo amore. Che poi, amore…  forse non si è mai sicuri che il loro sia davvero amore, e infatti Elio parla molto spesso di desiderio ma mai di amore. La sua voglia è infatti qualcosa di molto fisico (che non è necessariamente carnale), qualcosa da toccare, da stringere, da avere vicino. È però indubbio che si tratta di un sentimento molto violento, di quelli che ti assalgono e non ti lasciano più andare.
Ecco allora che Elio passa le sue giornate a interrogarsi continuamente su Oliver e il suo rapporto con lui. Cosa vorrà dire quello sguardo? Quel gesto lo fa perché arrabbiato? Cosa significa la sua assenza? E la sua vicinanza?

Volevo essere come lui? Volevo essere lui? O forse volevo solo averlo? Oppure “essere” e “avere” sono verbi del tutto inadeguati nell’intricata matassa del desiderio, per cui avere il corpo di qualcuno da toccare ed essere quel qualcuno che desideriamo toccare è la stessa cosa, sono solo rive opposte di un fiume che scorre dall’uno all’altro, poi torna indietro e infine va di nuovo verso l’altro, e ancora, e ancora, un circuito perpetuo dove le cavità del cuore, come le botole del desiderio e i buchi del tempo e il cassetto a doppiofondo che chiamiamo identità, condividono una logica ingannevole, secondo la quale la distanza più breve tra vita reale e vita non vissuta, tra ciò che siamo e ciò che vogliamo, è una scalinata tortuosa progettata con l’empia crudeltà di M. C. Escher.

Da ragazzo le faccende di cuore mi hanno spesso fatto soffrire. Non ero un tipo socievole, non ero il belloccio di turno, non ero popolare, quindi diciamo pure che la mia vita sentimentale era a senso unico e imboccava la via verso il burrone. Per cui il primo vero innamoramento l’ho sempre vissuto male, perché fatto di tanto struggimento e zero ricompense. Un grande affanno per classificarmi comunque ultimo. Una continua ricerca di conferme o di smentite, di gelosie e rabbia e adorazione. Un tentativo continuo di stare vicino a quella persona nella speranza che si accorgesse di qualcosa. Sotterfugi per carpirle informazioni, deduzioni, speranze.
Il libro di Aciman mi ha ricordato tutto questo.

chiamamicoltuonome

Elio (Timothée Chalamet) e Oliver (Armie Hammer), nel film di Luca Guadagnino.

Dopo un inizio folgorante, da amore a prima vista, ho avuto qualche tentennamento per via della quasi folle ossessione che il protagonista matura nei confronti dell’oggetto dei suoi desideri. Ogni pensiero di Elio è pervaso dalla presenza di Oliver, tanto da arrivare quasi a detestarlo e bramarlo al tempo stesso.
Ma poi, pian piano, mi sono reso conto che pure io ero ossessionato dal mio sogno d’amore. Anzi, un po’ volevo esserlo, quasi mi sforzavo di esserlo. Quello che Elio stava mettendo nero su bianco erano esattamente i sentimenti che provavo io nella mia adolescenza.

Eccolo lì, il lascito della giovinezza, le due mascotte della mia vita, fame e paura…

Questo romanzo mi ha fatto fare pace con il mio cuore giovane.
Circa.
Nel senso che continuo a odiare quanto provato all’epoca e sono felice per quanto succede invece nel romanzo (a loro è andata decisamente meglio che a me). Ma ho capito che, in qualche modo, quanto vissuto nella giovinezza viaggerà con me e non potrà più ripetersi.
Non c’è più stato un tale trasporto per una persona. Questo non significa che poi abbia amato meno mia moglie rispetto a quella lontana ragazza. Questo significa, molto semplicemente, che non ho più provato un senso di desiderio così forte, così intenso, così opprimente da rubarti tutte le ore e tutti i pensieri (e tutta l’intelligenza) a disposizione. Così crudele, anche.

Chiamami col tuo nome racconta di un momento ben preciso della vita in cui si rimane folgorati, in cui si pensa solo a una cosa e si vuole ottenerla e allo stesso tempo se ne ha paura e questo sentimento (Positivo? Negativo?) ti rimarrà dentro per sempre. A volte ti troverai a ricordarlo. Lo odierai. Lo amerai. Tenterai di capire cosa davvero provavi. Allo stesso tempo saprai per certo che si tratta di una cosa che non si ripeterà mai più e che tutto quello che verrà dopo sarà profondamente diverso.

Ma quella prima volta avrà davvero condizionato il nostro modo futuro di amare?
Nel libro in qualche modo parrebbe di sì. Quella ‘relazione’ di qualche settimana sarà sempre un termine di paragone, sarà un sogno, un miraggio. E forse è davvero così anche nella vita reale. Forse ci sono momenti in cui penso a quel desiderio e ne potrei volere uno uguale. Ma la verità è che si tratta di un sentimento più distruttivo che edificante. O meglio, quell’esperienza voleva frantumarti, rompere le tue abitudini, le tue routine, per poi ricomporti. E per quanto possa portare nuovi, ottimi risultati, la distruzione non è mai bella. È però indubbio che i nostri pezzi riassemblati hanno costruito qualcosa che è rimasto.

Chiamami col tuo nome è un inno al primo amore, al primo desiderio. Ed è un invito a ricordarlo positivamente, perché se non lo avessimo provato saremmo (forse) molto diversi.

***

Chiamami col tuo nome
di André Aciman
Traduzione di V. Bastia
271 pagine, 17,00 €, Guanda

*tratto dall’intervista di Marta Cervino ad André Aciman apparsa su Marie Claire.

 

ALongTail: della necessità di ‘aggiungere’

Quando viene annunciato un sequel, o un prequel, di una saga o di un libro (ma anche di un film) che si è molto amato ci si scopre pervasi da due sentimenti contrastanti: la voglia di avere subito quel nuovo testo tra le mani, perché si vuole bene ai personaggi e alla storia precedenti, e la paura di trovarsi tra le mani una ciofeca. Perché sì, è risaputo che aggiungendo acqua al brodo il gusto va scomparendo.

Sono rimasto schiacciato da queste due sensazioni anche quando venne annunciato il primo volume del Libro della Polvere, nuova trilogia di Philip Pullman che riprende le vicende narrate in Queste Oscure Materie (ne ho parlo qui, qui e qui) e che lo stesso autore definisce come equal, ovvero una storia che, in qualche modo, viaggia parallelamente all’originale. Dico ‘in qualche modo’ perché in realtà La Belle Sauvage è ambientato dieci anni prima de La Bussola d’Oro, mentre gli altri volumi dovrebbero essere ambientati dopo le vicende della trilogia. Il fatto però che un fantomatico Libro della Polvere venisse nominato ormai da anni e anni e che Pullman sia uno scrittore capacissimo mi facevano ben sperare ed ero eccitatissimo per la pubblicazione del nuovo romanzo.

Ma qual è stato il risultato finale?
La risposta potrebbe variare a seconda di quale me sta rispondendo.

Pullman

Lo ammetto, a lettura ultimata mi sono detto: “Wow! Bellissimo! Bravo Pullman!”
Da fan della storia originaria (da fan sfegatato, a dire il vero) mi è piaciuto più di quanto mi sarei aspettato re-incontrare una neonata Lyra, scoprire di più sui suoi primi mesi di vita e su come lei e l’Aletiometro siano arrivati al Jordan College di Oxford. Ho amato tutti i nuovi personaggi e ho preso in grande simpatia questo nuovo protagonista che, a differenza dei precedenti ragazzini di Pullman, è molto più coscienzioso e molto più studioso, e questo mi ha permesso di identificarmi maggiormente con lui, rispetto per esempio a Lyra o a Will.

Poi, però, ho lasciato smorzare un po’ l’entusiasmo e mi è sembrato giusto chiedermi se, al di là del mio trasporto da fanboy, ci fosse anche dell’arrosto oltre che del fumo. Volevo capire se, in pratica, avessi trovato bello quel libro per una mia idea, un mio preconcetto, o per una realtà oggettiva. Perché il punto è anche: cosa voglio raccontare a chi passa di qui e si ritrova a leggere un commento su questo romanzo? Credo infatti che sia forte il rischio di lasciar da parte l’oggettività per dar spazio a un sentimento che di oggettivo non ha nulla, ma è più legato ai ricordi.
E, tristemente, riflettendo su La Belle Sauvage ho dovuto ammettere che quello che sentivo io era un amore condizionato da aspettative che si ostinavano a non voler essere deluse.

12591167lpw-12647700-sommaire-britainliteraturepullman-jpg_4861705

Philip Pullman

Qual è lo scopo di un progetto come questo?
Perché scrivere un prequel? Perché scrivere una nuova storia legata a una precedente? Per soldi? Per scarsità di idee? Perché davvero ti è venuta in mente una storia geniale?
E, soprattutto, per chi è questa storia? È destinata ai fan di lunga data o a chi non conosce ancora questo multiverso?

Mi chiedo tutto questo perché, in verità, La Belle Sauvage non è un romanzo brutto, ma allo stesso tempo è un romanzo che presente alcune pecche che lo allontanano di molto dagli originali. Inoltre mi rendo conto che il libro potrebbe colpire in modo molto diverso i vari lettori a seconda del loro essere o meno fan della prima serie.
Credo che l’intento di Pullman fosse di accontentare un po’ tutte e due le fazioni, ma alla fine non è riuscito bene in nessuno dei due casi, e forse proprio perché intento a collegarsi a qualcosa di già esistente e ben radicato nella cultura pop contemporanea, ma anche desideroso di raccontare qualcosa che fosse nuovo e differente.

Non è facile riprendere una storia di successo. Per mille motivi che vanno dall’attaccamento dei fan alla limitatezza di idee geniali che uno può avere.
Quindi perché correre un rischio simile? Perché rischiare di mandare tutto in frantumi?

scan0024__

La mappa della Oxford di Queste Oscure Materie.

Se mi astraggo un po’ dalla parte dell’agguerrito sostenitore di Lyra & Co., riesco quindi a vedere alcune cose che a mio avviso non funzionano in un libro come questo.

Il primo problema è la lentezza.
È un romanzo essenzialmente lento, che procede molto piano e in un modo fin troppo lineare. C’è una prima parte molto tranquilla dove la scena si svolge attorno ad un paio di luoghi e che tenta di incuriosire il lettore attraverso l’abbozzo di alcuni intrighi e alcune indagini, ma rimane un momento senza molte risposte e con un’azione più ‘mentale’ che fisica.
C’è poi una seconda parte dedicata a una lunga fuga che però procede con uno schema ricorrente e poco vario, fino a una conclusione che non risolve nulla.
Il risultato è quindi un’opera di avventura che però procede un po’ troppo piano e con pochi ‘guizzi’ e non riesce quindi a farsi desiderare, non scatena la brama di scoprire nel lettore. E questo è un problema soprattutto per chi non ha mai letto la saga originale e che con questo volume dovrebbe invece imparare a conoscerla, o almeno desiderare di farlo.

C’è poi un altro punto che trovo particolarmente negativo e che, sì, mi ha lasciato molto perplesso.
Una delle cose belle di questo primo volume del Libro della Polvere è il cattivo. L’antagonista di questa storia è un personaggio davvero spaventoso, apparentemente crudele, tanto che arriva a picchiare persino il suo stesso daimon, una iena spaventosa e priva di una zampa. E chi mai potrebbe avere una iena per daimon? E chi picchierebbe la sua stessa anima? Un’idea interessantissima che però non viene sfruttata al meglio. Per tutta la storia ci si chiede chi sia e cosa voglia questo personaggio, ma non si riesce mai a scoprire niente che vada oltre il semplice pettegolezzo. Non si capisce cosa lo porti a fare quello che fa, il perché delle sue azioni.
E sì, è vero che ci saranno altri due seguiti e che quindi potrebbe ricomparire per dare spiegazioni migliori (sebbene questo primo volume sia bene o male autoconclusivo), ma allo stesso tempo si rimane privi di un elemento godurioso, di quella scintilla che ti incendia un po’ il cuore da lettore che ti ritrovi.
Anche ne La Bussola d’Oro non veniva, ovviamente, spiegato tutto, ma allo stesso tempo c’erano sufficienti colpi di scena e/o informazioni che regalavano un senso di soddisfazione al lettore. Qui, invece, l’unica soddisfazione che viene data è la salvezza di Lyra, che però risulta una conclusione piuttosto scontata per il lettore di Queste Oscure Materie.

I problemi sono quindi essenzialmente due: per un lettore di vecchia data (ma non solo), già fan della storia, manca quel senso di meraviglia e di piacere nello scoprire qualcosa di nuovo, perché alla fin fine questo romanzo tratta sì di un momento mancante della storia principale, ma senza regalare momenti di grande esaltazione. Per un lettore che non si era mai avvicinato a Pullman, invece, manca proprio il desiderio di proseguire nella lettura.

Ed è un peccato, perché ci sono elementi molto interessanti.
Malcolm, il giovane protagonista, è un ragazzo che si sa far amare, è curioso e coraggioso, ma con un carattere più ‘docile’ rispetto ai suoi predecessori. È molto più studioso e più ‘attento’ rispetto a Lyra e Will.
Ma poi anche la Lega di Sant’Alessandro, che chiede agli studenti di denunciare chi propone idee contrarie alla Chiesa, causando così un gran scompiglio nelle scuole, oppure Oakley Street, che è una sorta di rete di spionaggio, e le suore del convento che ospita Lyra e che sono, credo, le prime religiose descritte da Pullman a non far parte dei ‘cattivi’ della storia. Ma anche l’uso più ‘abbondante’ di personaggi provenienti dal folklore inglese, che in parte sono una novità rispetto alla mitologia più strettamente religiosa dei predecessori. E c’è poi Alice, la compagna di avventure di Malcolm, che come ogni eroina di Pullman incarna intelligenza e sfrontatezza, ma che ci regala anche qualche occasione per osservare il desiderio che cresce in un adolescente.
C’era, in somma, parecchia carne sul fuoco, ma non è stata cotta a dovere.

Come dicevo all’inizio, una parte di me ama molto questo romanzo, ma lo ama per ragioni affettive più che di merito. Un ‘problema’ che credo abbiano molti fan.
È indubbio, e lo ripeto ancora una volta, che Pullman si sia dimostrato un ottimo autore anche in questo caso e che abbia introdotto tematiche interessanti e importanti. Credo però che ci sia la necessità di ritornare a guardare un’opera letteraria nella sua interezza. Non basta avere un buon protagonista, non basta avere una bella scrittura, non basta avere idee interessanti, non basta avere una buona gestione della storia e dei tempi. Per fare un buon romanzo servono TUTTI questi elementi, e in questo caso manca proprio un progetto per trascinare il lettore con sé.

Troppo spesso, ultimamente, ci si sofferma su una minima parte di un libro, e spesso questa parte è l’intento.
Non mi basta.
Non deve bastare.
E Pullman è un grande scrittore, so quello che è capace di fare. Rimane quindi la speranza che con i prossimi volumi (il secondo, The Secret Commonwealth, dovrebbe essere piuttosto imminente) riesca a raddrizzare il tiro, perché la mira era buona, ma all’ultimo si vede che ha spostato un po’ la spalla.
Spero quindi che, alla fine, questa necessità di aggiungere qualcosa a una storia che era già completa di suo possa dimostrarsi sentita e meritevole, genuina, perché altrimenti c’è il rischio di diventare solo un’ombra della grandezza passata e un’ombra, si sa, va a oscurare anche quello che di luminoso ha alle spalle.

***

Il Libro della Polvere. La Belle Sauvage
di Philip Pullman
Traduzione di G. Calza
476 pagine, 18,00 €, Salani

 

Felicità vulnerabili

È questo che secondo me la letteratura realista può dare, tra tante altre cose, ai suoi lettori. Non già la famosa tranche de vie, la “fetta di vita”, come volevano i naturalisti francesi, non già questo realismo che consiste semplicemente nel porre uno specchio tipografico davanti alle cose che possiamo vedere lo stesso – o addirittura meglio – tutti i giorni per strada, bensì quest’alchimia profonda che, mostrando la realtà così com’è, senza tradirla, senza deformarla, permette di vedere le cause soggiacenti, i motori profondi, le ragioni che portano gli uomini a essere come sono o come non sono.

Lo diceva Julio Cortázar in una delle sue lezioni all’università della California, a Berkley. E sì, è il secondo post di fila in cui cito l’autore argentino e no, non credo mi fermerò qui. Il fatto è che il buon Julio, da sapiente autore di racconti qual è, aveva capito alcune di quelle leggi non scritte che rendono un racconto un buon racconto. O almeno così la penso io.

Vite vulnerabili di Pablo Simonettti, autore cileno, quindi sudamericano proprio come Cortázar (sebbene, come detto da molti, abbia una scrittura poco ispanoamericana), è stata un’ulteriore conferma alla citazione iniziale.
Il buon racconto realista non è uno specchio ma qualcosa di più profondo.
Le storie di Simonetti non sono fotografie in posa, ma scatti ‘naturali’ eseguiti da un fotografo tra la folla. Per citare ancora una volta Julio, stavolta con parole tutte mie, queste foto ci lasciano pensare a cosa c’è stato prima e a cosa ci sarà dopo, a come siano giunti qui, ora, questi personaggi e dove stanno andando. Vogliono lasciarti intuire (perché non dicono mai, ma lasciano intuizioni) cosa c’è sotto.

E cosa c’è sotto?
Simonetti, parlando di questa sua prima raccolta, dice:

Sono dodici storie, e solo quando le ho viste tutte insieme mi sono reso conto che avevano un unico filo conduttore, che erano legate e si univano attraverso questi personaggi, che sono tutti vulnerabili. […]
Sono storie che hanno quasi sempre a che fare con il conflitto che esiste tra chi siamo e chi vorremmo essere di fronte agli altri, o ancora chi facciamo finta di essere».

Ecco. Sì. La vulnerabilità di persone che vorrebbero essere altro o che fanno finta di fare altro. La vulnerabilità delle persone tutte, o quasi, mi verrebbe da dire.

Vite-vulnerabili_large

C’è una cosa che mi sono chiesto a fine lettura. Una domanda breve ma che può destabilizzare moltissimo: riusciamo mai a essere felici?

Me lo sono chiesto perché tutte le storie raccolte in Vite vulnerabili parlano di qualcuno a cui manca qualcosa per essere felice. Anzi, tutte le storie raccolte in Vite vulnerabili parlano di qualcuno che pensa gli manchi qualcosa per poter essere davvero felice. Perché poi il problema sta tutto lì, nel capire cioè cosa sia in grado di darci gioia e contentezza davvero.

Ma le persone tendono a perdersi in bicchieri d’acqua. E vogliono il mare.

Ecco allora che a volte ci manca qualcosa di piccolissimo, altre qualcosa di più grande. Alcune volte siamo noi a mancare il bersaglio e altre volte siamo spinti di lato dagli altri. Poco importa. Tutti, in queste storie, nella vita, cercano sempre qualcosa che li renda felici. Apparentemente senza mai riuscirci davvero. E molto spesso questi Graal della felicità sono miti, leggende che ci raccontiamo e della cui veridicità ci convinciamo senza sospettare che sono, appunto, solo altre storie. Una volta raggiunto capiremo che non era quella la felicità e ci metteremo in moto di nuovo.

Il primo racconto, Il giardino dei Boboli, che io trovo esemplare in questo senso, è perfetto per inquadrare questa ricerca infruttuosa della felicità a tutti i costi.
C’è una coppia di novelli sposi in viaggio di nozze a Firenze. Lui vuole continuare a correre da un monumento all’altro. Lei vorrebbe un po’ più di pace e serenità in compagnia di lui.
Un momento che dovrebbe essere il più ‘facile’ e felice per una coppia diventa un inferno di rabbia sottopelle, di rabbia nascosta che non riesce a sbocciare davvero ma che allo stesso tempo sciupa tutto. Ed è una rabbia causata dall’assenza di quel qualcosa capace di rendere felici i protagonisti.
Nessuno dei due desideri, in verità, porterebbe alla felicità, ma allo stesso tempo questa mancata realizzazione della propria idea, della propria visione, spezza la coppia.
Ci sarà solo un momento, alla fine, dove regnerà un qualche tipo di serenità. Non felicità, sia chiaro, ma serenità. Solo che credo si tratti di una serenità vana, destinata a distruggersi, perché il giorno dopo il continuo voler cercare che contraddistingue la razza umana ritornerà a farsi sentire.

Siamo creature inquiete. Lo siamo sempre. Abbiamo tutto ma vogliamo di più. Oppure abbiamo costruito tutto sui sogni altrui, rimanendo con niente.
Siamo sempre insoddisfatti e, per questo, vulnerabili. Perché ci muoviamo sempre senza mai fermarci. Non riusciamo a mettere radici perché vogliamo sempre un terreno più soffice, solo che questo terreno non arriva mai.

Simonetti ha una grande capacità: è un ottimo fotografo di movimenti. E questi movimenti affascinano il lettore, che rimane intrappolato tra una scrittura delicatissima e delle trame struggenti, e allo stesso tempo lo porta a farsi delle domande che non richiedono mai risposte facili. Che forse non prevedono nemmeno una risposta.

Una su tutte: quanto sono felice?

***

Vite Vulnerabili
di Pablo Simonetti
Traduzione di Francesco Verde
184 pagine, 18,00 €, Lindau

Lezioni di letteratura
di Julio Cortázar
Traduzione di I. Buonafalce
242 pagine, 29,00 €, Einaudi

Lezioni di vita al Firozsha Baag

Leggevo giusto qualche giorno fa Cortázar e le sue Lezioni di Letteratura, un volume che racchiude appunto una serie di lezioni tenute a Berkley nel 1980.
In una di queste lezioni, il buon Julio dice che:

A volte lo Humour può camuffare davvero una visione molto più seria e molto più tragica delle cose.

E questo essenzialmente perché l’umorismo è un distruttore che, distruggendo, costruisce.

Il meccanismo dell’umorismo funziona pressapoco così: demolisce valori e categorie consueti, li ribalta, li mostra dall’altro lato, fa bruscamente saltare in aria cose che per abitudine, per assuefazione, per accettazione quotidiana non vedevamo più o vedevamo meno bene.

Leggevo queste riflessioni dello scrittore argentino proprio appena dopo aver chiuso Lezioni di nuoto, raccolta di racconti di Rohinton Mistry, e non ho potuto fare a meno di notare come questa successione di letture fosse capitata a pennello.

1-e1461142794498

Quelli di Lezioni di nuoto sono racconti che contengono sempre un qualche elemento buffo, umoristico, in genere legato a un personaggio che compare nella storia narrata e che può esserne il protagonista oppure una semplice comparsa.
C’è per esempio il signore che ha problemi col suo bagno, la vicina impicciona che nei giorni di lutto continua a importunare la vedova offrendo un aiuto non richiesto, la vecchia che per ripicca semina immondizia davanti la stanza dei vicini, l’emigrato che non riesce a fare i suoi bisogni da seduto e così via. Ma questi elementi non sono lì per creare delle scenette che facciano ‘solo’ ridere il lettore (sebbene ci riesca) ma per decostruire, come diceva Cortázar, una quotidianità e mostrarcela sotto una lente differente.

Sotto queste figure buffe, apparentemente leggere, si nascondono alcuni dei momenti più crudeli e più dolorosi che mi sia capitato di leggere ultimamente. E sono nascosti bene, perché mentre leggi ti ritrovi a sorridere dell’assurdità di alcune situazioni, o magari ti metti a ricordare personaggi simili che sono entrati pure nella tua, di vita, sebbene per poco (chi di noi non ha incontrato un vicino rompi scatole?). Ma poi arrivi alla fine e, giusto prima di affrontare un nuovo racconto, ti soffermi a riflettere su quanto appena letto e comprendi la durezza di quello che è stato davvero raccontato.

Se l’idea che tutti i vicini vengano a usare il tuo frigorifero in quanto unico elettrodomestico refrigerante dello stabile fa divertire, fa meno sorridere cosa questa condivisione comporta alla fine, ovvero una situazione che non solo mette in mostra la povertà di certa gente, ma anche la cattiveria di altra.
Se sorriderete per la figura di quel padre che si fa togliere tutti i capelli bianchi dal figlio più piccolo, in un eccesso di vanità e sull’onda di un’ottimistica speranza in un lavoro migliore, vi potrebbe pure scendere qualche lacrima nel momento in cui Mistry si metterà a descrivere come un giovinetto arrivi a capire che la morte è in agguato, sempre, e che forse quello che considera un sacrificio non lo è.

Ecco allora che si comprende come l’autore stia in realtà dipingendo la nostra condizione umana, una condizione che racchiude mille sfaccettature che vanno dalla comicità al dramma più nero, dal lato migliore di una persona a quello peggiore.

Lo humour non è comunque il solo strumento utilizzato dall’autore per raccontare le persone.
L’altro grande attrezzo è quello che potrei chiamare continuità. Continuità perché i personaggi non si esauriscono quasi mai con una semplice comparsata, no, questi compaiono, spariscono e ricompaiono in altre storie dimostrando così che tutti, senza esclusione, hanno le loro disgrazie, le loro gioie, le loro storie da raccontare.

Non è un caso, quindi, che i racconti siano ambientati al Firozsha Baag, un complesso di tre ‘condomini’ di Bombay. Questa ‘bolla’, questo frammento di una grande città è il vetrino che Mistry guarda col suo microscopio di scrittore, un vetrino che racchiude una popolazione variegata di uomini e donne e giovani e meno giovani che costantemente si incontrano, si evitano, si mescolano e quindi crescono, mutano, esplodono.
Il mondo racchiuso in un serraglio.

E poi ci sono gli oggetti.
Gli oggetti a volte sanno raccontarci meglio di mille parole.
Osservando un francobollo, una vecchia gabbia per uccelli, un turbante, l’anima sobbalza e rivive cose passate, sogni che desideriamo disperatamente vedere realizzati e presenti in disfacimento lento e continuo.
Gli oggetti ci rappresentano e per questo motivo a volte li amiamo, a volte li odiamo. Di sicuro ci rivelano al mondo più di quanto pensiamo.

18f9ed71a596d0dd0c298c6870621bcf

Rohinton Mistry

Con una scrittura sorprendente, l’autore riesce a diversificare ogni storia, a raccontare qualcosa in modo sempre differente, anche ricorrendo a veri cambi di stile e passando da narrazioni più ordinarie a storie costruite come memoriali, o addirittura come una sorta di Mille e una Notte dove il cantastorie del complesso intrattiene i ragazzini raccontando loro le vicende del più grande eroe di tutti: Savukshaw.

Ad ogni storia un sorriso, una tenerezza e una stilettata al cuore.

Non posso, prima di finire, menzionare due racconti che si sono guadagnati un posto eterno nel mio cuore, perché mi hanno saputo donare dei momenti di grande tenerezza e struggimento: Visita di condoglianze e Di capelli bianche e del cricket. Sono entrambi legati al concetto di morte, e quindi di ‘allontanamento’ di un caro, ma visto da due punti quasi opposti. Nel primo c’è la vedova che, rimasta sola, non riesce a lasciar andare del tutto il marito. Nel secondo c’è un ragazzino che scopre, in qualche modo, che tutto deve finire.
Sono due racconti molto teneri che mi hanno davvero stravolto perché la penna di Mistry, che fino a un paio di racconti prima aveva punzecchiato il lettore con spezie e grida e intrusioni ‘prepotenti’, qui si fa, pur senza dimenticare l’ironia, di una tenerezza struggente. Il dolore, la miseria della vita, sono in questo caso nascoste da una grande delicatezza. Qui è tutto più sottile e oltre a mostrare la grande bravura dell’autore, mostra anche come alcuni momenti, alcuni secondi di epifania, possano cambiare la maniera in cui concepisci la tua intera esistenza.

Per concludere, un suggerimento: procuratevi questi racconti. Vi mostreranno un’India che riassume l’umanità di tutti noi, vi farà ridere e anche piangere e vi farà riflettere su come anche un semplice oggetto, una mazza di cricket per esempio, possa assumere significati diversi a seconda del momento in cui ci troviamo a osservarla. Perché il mondo, la vita, non cambia. Cambiamo noi.

***

Lezioni di nuoto
di Rohinton Mistry
Traduzione di Chiara Vatteroni
340 pagine, 15,00 €, Racconti

Lezioni di letteratura
di Julio Cortázar
Traduzione di I. Buonafalce
242 pagine, 29,00 €, Einaudi

Ragazze nel bosco

Siete mai stati ragazzini in un bosco?
Io sì.

Il bosco è qualcosa di interessante. Non è un parco giochi, non è un oratorio. Non è nemmeno una piazza, o una spiaggia. Non è neppure una via malfamata. Il bosco è un qualcosa che chiama e respinge allo stesso tempo, un luogo misterioso, una terra vergine da esplorare, dove a regnare non sono gli uomini ma la natura. Il bosco, sebbene si tratti di quello dietro casa, è qualcosa che conosci bene e allo stesso tempo non conosci per niente. Ha rumori segreti e spaventosi, profumi e odori, versi, linguaggi. Ha trappole e vie d’uscita, imprevisti e sorprese, spettacoli e incubi. È qualcosa che fa parte del nostro mondo ma che, allo stesso tempo, ne è completamente fuori, perché bastano pochi alberi per non vedere più le case degli uomini.
Il bosco è una terra di mezzo.

Parto da qui per parlare del libro di oggi perché la storia che racconta ha risvegliato in me moltissimi ricordi. Molti di essi boschivi.

mati-3202270_1920

Attorno ai dodici/tredici anni avevamo formato una piccola banda, poche persone, forse cinque, tra ragazze e ragazzi. Non è durata molto, giusto il tempo di un sogno breve. Ma c’è stata. Partivamo il pomeriggio e andavamo nel bosco. Ci armavamo di bastoni e progettavamo la costruzione di un covo. Spiavamo qualche adulto di passaggio e prendevamo le fascine di una qualche baita per buttarla nel torrente. Ci prendevamo a brutte parole, ci offendevamo e deridevamo eppure confabulavamo insieme.
Finì presto, ma c’erano state altre cose prime e alcune altre dopo, sebbene ancora per poco. C’erano, per esempio, le pizze fuori per un compleanno e poi il classicissimo andare a suonare i campanelli di case estranee. Banalità, potremmo dire, ma una volta una vecchia incavolatissima ci inseguì sù e sù per una salita ripidissima, con la scopa in mano, e correva e correva, veloce come noi giovinastri, e non voleva decidersi a fermarsi e a lasciarci in pace e quando arrivò all’altezza di qualcuno di noi inventammo scuse patetiche e bugie spregiudicate per scampare ai colpi di scopa (e ora, da genitore, mi trovo a chiedermi: “E se al posto della scopa avesse avuto un fucile?”). Ma poi le guerre tra vie, le corse in bici in luoghi che mi farebbero tremare oggi, e poi i motorini…

Tutto questo, in qualche modo, c’è ne Le ragazze non hanno paura.

71i93ZhW3PL

La storia è raccontata dalla voce di Mario, un tredicenne che va in vacanza in montagna, con la nonna, e lì incontra Tata, una ragazza di cui si innamorerà perdutamente, e altre ragazze con le quali formerà una banda, una banda che andrà per boschi e in guerra e perfino oltre, fino a doversi confrontare con un momento che potremmo definire ‘di passaggio’.

Se c’è una cosa che mi è molto piaciuta del romanzo, questa è la sincerità. È un libro molto sincero, che non si trattiene. Non racconta una giovinezza docile ed edulcorata, no. Ferrari racconta una giovinezza di violenza (nei sentimenti, nelle azioni, nei gesti e nel linguaggio), la violenza che contraddistingue questo periodo di evoluzione. Ed è qui che mi sono molto ritrovato, che i ricordi si sono aperti a valanga. Il fatto che Mario non sia un tipo molto popolare, ma che comunque si ritrovi in questa banda. La sfacciataggine di certi comportamenti, il coraggio di certe situazioni, la stupidaggine con cui se ne affrontano altre, la strafottenza, la rabbia, la cattiveria, la forza, l’energia, la passione… c’è la mia giovinezza, qui. Ed è per questo che dico che è molto sincero, o almeno sincero per me. Perché mi sembra di rivivere certe esperienze.

Ma Le ragazze non hanno paura non è solo questo. Non è ‘solo’ una ricostruzione delle avventure di giovani adolescenti, sebbene fatta meravigliosamente.
Tra l’altro, piccola parentesi, che gioia vedere un libro con protagoniste delle ragazzine così… vere! In situazioni che la letteratura tende a donare solo ai maschi.
Questo è il vero libro delle ‘bambine ribelli’.

La verità è che Le ragazze non hanno paura è un titolo perfetto sul passaggio dalla fanciullezza all’inizio dell’età adulta. Ci sono ragazzini che giocano come fossero bambini, ma allo stesso tempo le loro azioni sono adulte nelle conseguenze, quello che fanno non è più innocente (sempre che lo sia mai stato). La violenza diventa vera (si rompono braccia, ma non solo), così come veri diventano i problemi intorno a loro. Tutti i protagonisti, infatti, hanno qualcosa che non funziona perfettamente nella loro vita privata, dalla madre iperprotettiva al padre violento ecc. Ecco, questo è il momento in cui si rendono conto di questi problemi, in cui capiscono che sono problemi.
Ed ecco quindi che il bosco, una terra di mezzo tra la civiltà e la natura selvaggia, diventa una terra di passaggio, di trasformazione, si entra per uscirne cambiati.

E poi c’è la morte.
La morte è il vero spartiacque tra l’infanzia e l’età adulta. Lo credo da sempre così come credo che non sia una comprensione che avviene per tutti nello stesso momento. A volte si scopre la morte prima e a volte dopo.
In questo romanzo la morte è presente fin dall’inizio, da quando ci viene detto che Mario aveva una sorella, Eva, che appunto è scomparsa e che proprio questo rende sua madre tanto apprensiva. Ma questa è una morte molto sfocata. Lui era un bambino, è vero, ma a ben pensarci non era nemmeno tanto piccolo, 5-6 anni. Eppure non si ricorda nulla e questa assenza pesa su di lui in una maniera molto marginale. Però, durante l’estate nel bosco, la concezione della morte e della perdita cambia. Cambia perché viene vissuta in maniera più diretta e cambia perché se ne capiscono le conseguenze, perché c’è un dolore nuovo, perché cambia la concezione di futuro.
La morte è uno spartiacque netto tra l’essere bambino e non esserlo più, così come è una divisione netta, fisica, nel libro. C’è un prima e un dopo che ha anche dei toni diversi: più di pancia, d’istinto nella prima metà, più ragionato, e anche più crudele in parte, nella seconda.
E c’è una grande verità: per quanto si possa tentare di annientarla, la morte, non si può.

Ci sarebbero mille altri temi di cui discutere, perché nel libro vengono trattate, più o meno abbondantemente, molte altre cose quali il bullismo, il primo amore, l’omosessualità e, cosa che mi preme sottolineare, la facilità con cui si può diventare la parte ‘cattiva’ della storia.
A volte ci viene scontato pensare di far parte dei buoni, Mario poi è un ragazzo sempre preso di mira, la vittima, come potrebbe essere il cattivo? Però qui, in queste bande, si fanno e si dicono cose che non sono per nulla innocenti. Non ci sono davvero vittime, ma solo carnefici. Un aspetto interessante che non è, forse, il punto centrale della vicenda ma che in qualche modo si sviluppa parallelamente per tutta la storia. Ed è giusto così, perché capiamo davvero la nostra vera natura solo crescendo, e sperimentando anche, e facendo delle tremende cavolate.

Ma, con tutte queste cose di cui parlare, io ho deciso di soffermarmi su un altro punto (solo uno che altrimenti non si finisce più).

Non so se avete notato che, pur trattandosi di un libro adatto a un tredicenne, non ho inserito nel titolo la ‘dicitura’ A Long Tail. C’ho pensato a lungo, se farlo o no. Alla fine ho deciso per il no (o meglio, per un inserimento non troppo esplicito) perché questo romanzo mi ha fatto molto pensare anche come adulto e soprattutto come genitore.

Per tutta la lettura non ho potuto fare a meno di capire la madre di Mario. Non sono riuscito a fare a meno di pensare, molto spesso, a quante cavolate stessero facendo quei ragazzini.
Mio figlio ora ha quattro anni, ma un giorno avrà l’età di Mario. Un giorno potrà venire preso in giro, un giorno potrà fare il bullo, un giorno potrà correre nel bosco, armato di spade di legno e maschere dipinte e far tutto quello che viene descritto tra queste pagine. E lo so perché sono cose che ho fatto e subito pure io. E per quanto tu possa tentare di proteggere un figlio, questo troverà sempre il modo. Anzi, è sbagliata tutta questa protezione che la madre di Mario vuole dare al figlio. È sbagliata e lo capisci a ogni pagina. Eppure… eppure non riuscivo a non capirla questa donna. Non riuscivo a non giustificarla. La sentivo tremendamente vicina. E questo mi fa una grande paura.
Per questo ritengo che potrebbe essere una lettura importante pure per un genitore, non tanto per scoprirsi a tremare per gli infiniti possibili risvolti dell’avventata giovinezza, ma per ricordarci quello che facevamo pure noi e portarci a chiederci com’è giusto agire. O non agire.

Le ragazze non hanno paura è un libro che mi ha molto colpito.
È indubbiamente un romanzo molto bello e, come dicevo prima, molto sincero. Ed è questa sincerità che spesso manca nella letteratura per ragazzi. Una sincerità che potrebbe quasi spaventare, ma che sa donare lo spunto per moltissime riflessioni e, certo, per moltissimi ricordi.

***

Le ragazze non hanno paura
di Alessandro Q. Ferrari
297 pagine, 14,90 €, De Agostini

Non lasciamoci

The thought came to me […] that all good stories, never mind how radical or traditional their mode of telling, had to contain relationships that are important to us; that move us, amuse us, anger us, surprise us. Perhaps in future, if I attended more to my relationships, my characters would take care of themselves.

Lo dice Kazuo Ishiguro.
Lo dice nella sua Nobel Lecture.
Lo dice appena prima di far notare che, forse, a noi potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma che per lui quel pensiero costituì una sorta di rivelazione che cambiò tutto. Da allora, Ishiguro incominciò a costruire le sue storie in maniera differente. Come per Non lasciarmi, per esempio, che iniziò a scrivere lavorando sul triangolo al centro della vicenda, sulla relazione tra quelle tre persone. Si concentrò su quello per poi, e solo poi, ‘allargarsi’ a tutto il resto.

71QqYqwh8ML

È effettivamente così. La centralità di questi tre ragazzi e della loro relazione è preponderante a tutto il resto, ma non solo, è un rapporto nel quale ti senti talmente coinvolto che non puoi fare a meno di dar loro dei consigli, mentre leggi da solo, in camera, con la sola luce dell’abat-jour a illuminare l’inchiostro sulla pagina. Il lettore diventa quindi una sorta di voyeur che, in certi momenti, capirà più di quello che gli stessi protagonisti riescono a capire.

Il loro è un rapporto (una vita, anche) fatto di piccole cose. Piccoli gesti, piccoli oggetti, piccoli spazi. La voce narrante racconta fittamente di una quotidianità minuscola, in qualche modo. Il mondo viene rimpicciolito in poche scene, in poche scelte, in pochi luoghi e in pochi oggetti del cuore. Ed è questa centralità dell’essenziale che racchiude la bellezza del romanzo. È da qui che parte la grandezza del libro di Ishiguro.

Non lasciarmi protagonisti

Non Lasciarmi, film del 2010 diretto da Mark Romanek. Partendo da sinista: Keira Knightley (Ruth), Andrew Garfield (Tommy), Carey Mulligan (Kathy).

Qualcuno di voi forse saprà che a un certo punto del romanzo si scopre una cosa sul filo del fantascientifico. Una cosa che ci permette, in effetti, di considerare questa prova di Ishiguro come un romanzo ibrido, una commistione di generi. Allo stesso tempo, però, questa parte non mi è mai parsa centrale nella vicenda. Non mi è mai sorto il pensiero di discutere circa questa verità, che potrebbe invece portare a grandissimi discorsi sull’etica. Al contrario, questo particolare ha contribuito a focalizzarmi ancora di più sulle vite dei tre giovani protagonisti.
Non è tanto il cosa sono, che mi ha fatto pensare, ma il come vivono. E, indovinate un po’, più le osservi e più ti rendi conto che queste persone siamo noi. Siamo noi ogni santo giorno.

Durante un’intervista, in una domanda che faceva tipo: perché i protagonisti non fuggono dal loro destino? Ishiguro risponde:

Per andare dove? Sono educati fin da piccoli a pensare che il loro scopo sia importante. E poi quanti di noi vivono situazioni infelici, un matrimonio sbagliato, un lavoro non amato, eppure rimangono lì. Il film è triste perché è una metafora della condizione di tutti. […] Al pubblico che si chiede: che senso ha vivere così, io rispondo: che senso ha vivere in generale, allora.

La verità è che, appunto, la fine ultima di Kathy, Tommy e Ruth non è il nocciolo della questione. Il succo è come vivono prima di quella fine. Quella fine è una sorta di accelerazione del tutto.

Mentre leggevo questo libro non potevo fare a meno di pensare a quanto potesse essere un romanzo sulla crescita.
C’è la parte dove i protagonisti sono bambini e vanno a scuola, ricevono un’educazione che, in qualche modo, li incasella, li ‘formatta’, da loro delle linee entro cui stare. C’è poi l’adolescenza e la scoperta, per esempio, del sesso, in quel modo tipico dei ragazzi dove ognuno fa finta di saperne più degli altri, di avere più esperienza degli altri, senza che sia necessariamente vero. Poi è il momento di lasciare la scuola e allora la narrazione si fa più incerta. Cosa succederà? Quando succederà quello che desidero? Ma poi, accadrà?

Ciò che intendo dire è che tutti noi stavamo lottando per adattarci alla nostra nuova vita, e immagino che tutti noi facessimo cose che avremmo rimpianto in seguito.

C’è anche un momento, in una sorta di ambientazione di stallo tra la giovinezza e l’età adulta (che è poi l’unico luogo geografico ‘reale’), in cui i ragazzi si metteranno a cercare una particolare figura che sembra essere connessa con Ruth. Quella figura non è solo una sorta di parentela, di legame con il mondo ‘fuori’ dal loro. Quella figura rappresenta il futuro, la speranza di poter realizzare un proprio desiderio, la possibilità di riuscire a realizzarsi davvero, un po’ come quando da ragazzini sogniamo di diventare un calciatore famoso, o un astronauta.
Ecco, quell’inseguimento, quello stare alle calcagna di una possibilità, mi ha fatto molta tenerezza. Sembravano bambini intenti a giocare ma, allo stesso tempo, estremamente coscienti di quello che stavano facendo. E c’era la paura, la paura di essere scoperti, certo, ma anche di scoprire qualcosa che non vorrebbero scoprire. Capire che, forse, quel futuro non è il futuro che li attende. Proprio come quando, dopo qualche anno passato a giocare nella squadra del paese, si capisce che non si è il nuovo Ronaldo, che la propria vita dovrà essere altro.

È un po’ il preludio al risveglio. Un brusco risveglio, che ad alcuni capita prima, ad altri dopo. Ma è inevitabile. È devastante.

E poi, a concludere tutto, la domanda finale: l’amore ci può salvare?
E la triste risposta: no. L’amore non ci può salvare, ma se per puro caso riuscissimo a coglierlo davvero, quell’amore… se per caso riuscissimo veramente a sentirlo, ad accettarlo nella nostra vita, riusciremmo a vivere meglio. Ad avere meno rimpianti.

I rimpianti.
Credo che Non lasciarmi sia una grandissimo romanzo sul rimpianto, sull’accorgerci troppo tardi delle cose. Passiamo una vita a far finta che tutto ci vada bene così, che un tal sentimento sia pura immaginazione, che un tal impulso sia da controllare perché solo passeggero. Ma poi diventiamo vecchi, ci guardiamo indietro e ci chiediamo: che cosa ho fatto?
O peggio: che cosa non ho fatto?

Ci sono cose che rischiamo di non cogliere, o non voler cogliere, mentre percorriamo questa vita. E forse è giusto così. Forse è corretto non riuscire a cogliere tutto nel momento perfetto.
Ma c’è la possibilità, sempre, di rimediare.

Lo ammetto, subito dopo aver chiuso l’ultima pagina sono rimasto un po’ spaesato. La prima parte del libro mi è risultata piuttosto fredda, molto distaccata, e mano a mano che la storia procedeva rimanevo leggermente sconcertato da una mancanza di… non so, forse di un colpo di scena che cambiasse tutto, forse di una fuga, una vittoria o la parvenza di una fine ben più tragica o, al contrario, ben più felice. E invece niente.
Ma poi ho capito. Ho capito che questa storia doveva scorrere così, con questo ritmo, queste parole, queste vicende. Perché è una storia ‘comune’. L’elemento fantascientifico mi aveva tratto in inganno perché mi aveva portato a considerarlo più importante del previsto. La verità è però che questo romanzo parla in maniera tremendamente lucida della nostra realtà. Del nostro oggi. Anzi, del nostro oggi personale, piccolo, privato.

E poi Kathy ha iniziato a parlarmi.
Dopo aver concluso il libro ho iniziato a sentire la sua voce.
Forse sembro pazzo a scriverlo, ma questa sua voce continuo a sentirla. Nei momenti più disparati, nei miei pensieri, Kathy mi sussurra la sua storia, o forse la mia. Allora mi fermo e mi chiedo se rimpiango qualcosa e, beh, non trovo il coraggio di dirmi di sì. Allora lei mi parla ancora.
Forse non smetterà più.
Forse è giusto così.

***

Non lasciarmi, di Kazuo Ishiguro
Traduzione di Paola Novarese
298 pagine, 13,00 €, Einaudi